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La famiglia è… quel che è

Sintesi: Fare famiglia non vuol dire solo costruire un nido d’amore

Abstract: L’articolo ci ricorda che la famiglia è la scuola dell’alterità e dell’altruità

Papa Giovanni Paolo II, nel Discorso ai giovani della diocesi di Roma, il 18 marzo 1989, diceva: “La crisi della famiglia è la crisi della persona e delle persone. Sono le persone che pagano per questa crisi; sono le persone che la causano e che la pagano; le donne, i mariti, i bambini, la società”. In passato la famiglia era un sogno, oggi sembra essere diventata un incubo tanto che, solo per esempio, il neuropsichiatra infantile Giovanni Francesco Visci è arrivato ad affermare che “uccide più la famiglia che la mafia” (in un webinar del 23/11/2021). Si fa presto a dire e dirsi famiglia, a metter su famiglia, però quello che si è detto e fatto si vedrà solo nella vita dei figli. I genitori trascurano che la salute non è solo quella fisica ma è uno stato di benessere su cui incide ogni gesto, ogni parola e anche quello che non si fa.

La famiglia deve (o dovrebbe) comportarsi come ci si comporta in caso di terremoto: innanzitutto, metaforicamente, dovrebbe vivere in un’abitazione antisismica e conoscere le procedure di evacuazione; in caso di sisma ci si aiuta a mettersi in salvo dando priorità ai bambini o altri soggetti fragili; e, nell’eventualità di casa lesionata o crollata, si recupera quello che è possibile per ricominciare in un’altra sistemazione abitativa. La famiglia è il primo anello di “child safeguarding”, di tutela del bambino, invece sempre più spesso accade il contrario perché provoca traumi ai bambini, disastra la loro vita.

Il pedagogista Domenico Simeone precisa: “La fragilità dei legami affettivi, la mancanza di politiche sociali adeguate a favore della famiglia, la difficoltà di conciliare vita familiare e lavorativa sono sfide che ci invitano a ridare valore alla relazione e all’incontro autentico, perché la famiglia rimane […] l’ambito fondamentale “dell’umanizzazione della persona”, il luogo privilegiato della cura degli affetti e dell’educazione”. La famiglia è falda acquifera, è faro di riferimento. La falda, però, può essere inquinata e il faro può essere spento e questo, metaforicamente, significa che è soggetta all’intervento dall’esterno o che ha bisogno dell’intervento esterno.

Secondo il sociologo Francesco Belletti: “[…] fare famiglia non vuol dire solo costruire un nido d’amore in cui potersi rifugiare, ma, soprattutto, testimoniare al mondo la propria felicità personale. […] Del resto, anche Ermanno Olmi, in una scena per me indimenticabile dell’Albero degli zoccoli [1978], mostra una coppia di giovani sposi, di ritorno dal viaggio di nozze, che porta con sé un bambino orfano, che diventerà subito il loro primo figlio, fin dai primi giorni della loro nuova vita di coppia: generato e portato alla vita da loro, non in forza di un vincolo di sangue, ma grazie alla capacità di allargare da subito la loro storia d’amore a chi ne aveva bisogno. E oggi tanta parte di umanità ha nelle proprie storie e nei propri desideri un bisogno disperato di famiglie

accoglienti, capaci di accoglierli nel proprio cerchio d’amore” (in un articolo del 24/6/2022). Se si comprendesse il significato profondo e fecondo dell’amore che non si limita al pronunciare “Ti amo” ci sarebbero meno crisi personali e di coppia.

Cerchiamo di non concentrare l’intera vita familiare intorno alle richieste del bambino. È certamente importante dare ai più piccoli l’attenzione di cui hanno bisogno, ma senza dimenticarci che in famiglia ognuno ha delle esigenze e che anche i bisogni altrui vanno considerati, soprattutto se ci sono altri bambini all’interno del nucleo familiare” (un’équipe di esperti). La famiglia non è fatta solo di figli ma di fili, di legami, di relazioni che vanno curate di giorno in giorno, altrimenti scattano dinamiche perverse e incontrollabili (dal non parlarsi più al non riconoscersi più). Da notare che nel codice civile si usano espressioni significative quali “interesse della famiglia” (art. 143 comma 2), “bisogni della famiglia” (art. 143 comma 3), “esigenze della famiglia” (art. 144).

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Inutili le sgridate, le insistenze, i comandi, le urla… atteggiamenti che spingono i piccoli o a spaventarsi o, al contrario, a opporsi. Molto meglio essere pratici, concreti e organizzativi. Far vedere come si mettono a posto i giochi dopo che si è giocato, come si sistemano i libri nella libreria, dove si ripongono lo spazzolino da denti o l’asciugamano in bagno”. Si è passati dai padri padroni che, per esempio, si facevano togliere le scarpe ai figli tiranni serviti e riveriti. Famiglia è fare per l’altro, fare insieme, fare per amore e con amore, è gratuità, quotidianità, ferialità. Non si deve trasmettere che si fa qualcosa solo dietro compenso, solo per obbligo, che fare e darsi da fare è un peso e tutto questo passa attraverso l’esempio e anche attraverso la comunicazione non verbale. Uno dei verbi più usati in famiglia, nei riti domestici è “preparare”: preparare il corredino per il nascituro, preparare il pranzo, il caffè, lo zaino per la scuola e così via. Etimologicamente “preparare” deriva dalla radice “par” che sarebbe la stessa di “parte”, “paio”; “pari”, “parenti”, “partorire” e altre ancora: tutto ciò che caratterizza e costituisce la famiglia. La famiglia ha il compito di preparare la vita e alla vita. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (dalla lettera d dell’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Famiglia: fuoco dell’amore, fervore nel cuore, fermento nel darsi e dare, fremiti di emozioni. Questo il senso di parentela e affinità: tutt’altro che le rimpatriate e le tavolate in certe occasioni dovute o nelle cosiddette feste comandate.

“In Africa c’è una società con la famiglia estesa. Questa estensione porta il bambino ad apprezzare la vita comunitaria. Quando i bambini si trovano insieme senza i genitori e anche per molto tempo, c’è una filosofia di gruppo che li sostiene soprattutto quando trovano possibilità di giocare, di cantare e di mangiare” (cit.). Se si acquisisse la consapevolezza che l’educazione è compito

comunitario e avviene a livello comunitario perché ogni relazione è educativa, si eviterebbero deleghe educative, contese tra genitori/educatori e si potrebbero prevenire conflitti e atteggiamenti asociali o antisociali dei giovani. Quella comunità che è richiamata tre volte nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (Preambolo, art. 5 e art. 23).

La parola “famiglia” contiene “maglia”: la famiglia sia maglia che avvolge e non maglio che colpisce. Famiglia: fatica nel quotidiano (fatica nell’affrontare le situazioni, nel custodire le relazioni), fantasia nell’andare avanti (nelle soluzioni, nelle emozioni). La famiglia è, nel bene e nel male, tessuto di affetti e memorie e, pertanto, può subire strappi e usura del tempo e ha bisogno di ricuciture, “toppe” o altro rimedio.

L’altro: accorgersi, accostarsi, accomodarsi nel suo cuore, accollarsi i suoi pesi, allontanarsi insieme in volo in cieli più sereni. È questo uno degli aspetti del dovere di assistenza in famiglia ai sensi degli artt. 143 comma 2, 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.. La famiglia nasce dall’incontro con l’altro, è la culla dell’altro da sé.

La fisiologia dell’adolescenza

Abstract: L’articolo analizza la situazione degli adolescenti evidenziando la necessità di un atteggiamento adeguato degli adulti nei loro confronti, adulti che devono essere tali

Sugli adolescenti di oggi si leggono notizie allarmanti: “La fotografia che ci troviamo ad osservare è quella che ritrae una realtà in cui le ragazze ed i ragazzi che vivono nel nostro Paese “stanno male”. Il malessere delle giovani generazioni è diffuso, si esprime in diversi modi, ma riguarda tutte le sfere dell’esistenza, coinvolge le diverse fasce d’età, i ragazzi e le ragazze che vivono nelle grandi città e quelli che vivono nelle città di provincia. […] Mettendo insieme i dati e le riflessioni dei numerosi operatori coinvolti nella stesura del 13° Rapporto CRC, abbiamo di fronte una realtà complessa, in cui però emerge chiaramente la difficoltà che hanno sia i ragazzi che le famiglie a gestire tale complessità. Gli adulti non riescono a fornire appieno risposte adeguate ed essere sempre quei punti di riferimento di cui invece i ragazzi/e avrebbero bisogno in ogni ambito della loro vita. Le figure genitoriali sono oggi spesso impreparate ad affrontare le sfide legate alle varie fasi di crescita, disorientate e lasciate sole. La scuola è spesso percepita lontana, i giovani che hanno difficoltà faticano a chiedere aiuto e trovare risposte in tale contesto, anche perché non avvertono la presenza di un sistema attorno a loro. Ma anche gli insegnanti si sentono soli” (dalla Premessa del 13° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, novembre 2023).

È quanto scrive anche, tra gli altri, la giornalista Giulia Cananzi: “Una recente ricerca dell’Istat rileva che sono raddoppiati negli ultimi due anni gli adolescenti insoddisfatti della vita o che accusano una sofferenza mentale. Potremmo addurre mille motivazioni per cercare di spiegare tanto disagio, ma un punto fondamentale è capire se c’è un modo di rispondere, e possibilmente prevenire, a quella che sembra una deriva aggressiva in costante aumento, senza perdere i ragazzi e tutelando la collettività” (dicembre 2023).

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro, quale esperto dell’età evolutiva (e non solo) centra, invece, la sua riflessione sulle caratteristiche degli adolescenti e non su fatti e dati: “I ragazzi e le ragazze, quelli che oggi chiamiamo adolescenti e vivono in un ambiente profondamente mutato e soggetto ad apparenti o reali cambiamenti sempre più rapidi nel giro di una stessa generazione, non hanno subìto in profondità una mutazione nel senso che la biologia dà a questo termine. Abbiamo documentazioni provenienti da un passato più o meno remoto che dimostrano come certi comportamenti che oggi ci affascinano o ci preoccupano negli adolescenti nostri contemporanei, fossero ben presenti da sempre. Da questa documentazione risulta con tutta evidenza che quella che oggi chiamiamo ‘adolescenza’ sarebbe stata meglio chiamarla ‘l’età di Parsifal’, da parsi, puro, e fal, folle. È l’età dei folli puri, non quella alla quale pensavano gli psichiatri dell’Ottocento quando hanno coniato il termine ebefrenia mettendo una pietra tombale sulla bella follia dei ragazzi”.

L’adolescenza è una fase fisiologica e gli adulti devono fare in modo di non renderla patologica con le loro ansie (soprattutto di inadeguatezza) o interventi sbagliati.

Fulvio Scaparro aggiunge: “Se gli adolescenti sono costretti a mostrare un volto non gradevole, questo è in parte da considerarsi un aspetto fisiologico della crescita e della ricerca di un’identità ma molto è anche dovuto all’adulto smemorato, immemore perfino della propria adolescenza. Quando si specchiano l’uno nell’altro non si piacciono: il giovane non ama quell’‘anziano’ che gli si propone come modello, l’anziano disconosce la paternità o la maternità di quel giovane che gli sta di fronte. In comune hanno spesso solo l’arroganza. Non si ha più voglia di giocare, di esplorarsi, di corteggiarsi. Entrambi si pietrificano in rigide maschere. Visto dal punto di vista del ragazzo, entrare nella società dei grandi vuol dire, allora, pietrificarsi in una delle innumerevoli maschere possibili, quella del cattivo, del bravo figliolo, del duro, del sottomesso, del malato, del violento, del tossicodipendente, del fumatore… La pietrificazione è l’opposto del dialogo fertile, riduce la vita a un tragico teatro di marionette. Uno dei sintomi di questa pietrificazione del ruolo e del rapporto tra adulto e adolescente è quel giovanilismo ridicolo e tragico che spesso gli adulti – purtroppo proprio quelli che hanno funzioni e ruoli formativi – mettono in mostra nel loro rapporto con i ragazzi e le ragazze. Non bisogna inseguire i giovani, non bisogna ‘fare i giovani’, non occorre adularli. L’adulto, così facendo, rinuncia alla risorsa della diversità e si rende ridicolo e tragico come chiunque sia fuori posto e fuori tempo in circostanze che esigerebbero invece autenticità e responsabilità. L’adulto dovrebbe essere disponibile senza attendersi che l’adolescente faccia altrettanto. Disponibilità vuol dire presenza non intrusiva. Essere pronti a dare, consigliare, accogliere, raccontare le proprie esperienze e i propri sogni, dare esempio, dire ‘no’ ma anche sostenere e incoraggiare quando occorre, evitando di sostituirsi al giovane e di rafforzarne la dipendenza gettando così le basi di future dipendenze. Disponibilità è dare un tranquillo esempio di maturazione quale può dare solo chi ha vissuto molti distacchi e molte unioni ma non ha perduto la voglia di vivere”. L’adolescenza è una prova di maturità per gli adolescenti che devono superare questa fase e per gli adulti che devono mostrare di averla già vissuta e superata. L’adolescenza è il periodo in cui gli adulti devono assicurare ancor di più l’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e promuovere lo sviluppo, da quello fisico a quello sociale (art. 27 Convenzione), dei ragazzi. L’art. 27 della Convenzione offre uno spunto ai genitori come dovrebbero accompagnare i figli nell’“età dello sviluppo”, dal loro chiuso ai loro coetanei “soci” (letteralmente “compagni, alleati”).

La famiglia da normativa, incentrata su dovere e obbedienza, è diventata “famiglia narcisista”, che privilegia altre priorità, quali espressività, emozionalità, originalità, felicità; secondo lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, dopo la pandemia è diventata “famiglia postnarcisista”, segnata dalla rarefazione nelle relazioni, la perdita di grandi valori e punti di riferimento e l’accresciuta

difficoltà da parte dei genitori ed educatori ad accettare la fragilità dei figli. Gli adolescenti di oggi sono più fragili e tendono all’implosione perché sono più fragili i genitori, perché manca l’adultità. L’art. 315 bis comma 2 cod. civ. ha introdotto una grande novità rispetto alla vecchia normativa codicistica: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Il legislatore ha specificato il diritto di crescere e l’importanza dei rapporti, proprio quello che avviene nell’adolescenza: “adolescente” deriva dal verbo latino adolèscere, che significa “crescere”.

Matteo Lancini richiama: “Non bisogna trascurare alcun gesto degli adolescenti perché loro provano veramente dolore. Se un ragazzo tenta il suicidio, continuerà a pensarci; se una ragazza soffre di anoressia, continuerà a pensarci” (in un webinar del 05-02-2021). In passato le mamme “odoravano” i figli per sentirne odori sospetti, ne sollevavano il mento per guardarli negli occhi e altre “accortezze”. Oggi c’è una mania del controllo (che si pensa, per esempio, di esercitare dando precocemente ai figli il cellulare) ma non la giusta vigilanza, lo sguardo, l’attenzione, l’ascolto.

Dato il numero sempre maggiore di tentativi di suicidio e di suicidi adolescenziali e giovanili, in particolare in Italia, Lancini consiglia: “Anziché mandare i figli dallo psicologo, i genitori dovrebbero parlare direttamente con i figli e chiedere loro se hanno mai avuto idee suicide e perché” (in un convegno del 17 ottobre 2023). Assistere moralmente i figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.), cioè fermarsi con loro, accostarsi al loro mondo, far venir fuori le loro vere esigenze, è uno degli adempimenti più difficili per i genitori, soprattutto nel periodo adolescenziale dei figli.

Di solito i genitori si preoccupano fin troppo della protezione dei figli ma non adeguatamente del loro “ben-essere” (come, invece, richiesto nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), per cui sono in aumento fenomeni di ogni sorta, tra cui quello degli “hikikomori”, ragazzi chiusi in casa senza prospettive né di studio né di lavoro.

Un altro fenomeno inquietante è quello del “Teen Dating Violence” (TDV, letteralmente “violenza negli appuntamenti con adolescenti”, ovvero il “non amore” tra adolescenti), cui si aggiunge quella online, un aspetto critico del percorso di esplorazione adolescenziale, cioè la violenza che può caratterizzare le prime relazioni sentimentali in adolescenza e che può comportare, oltre a pericoli nell’immediato, anche problematiche nel lungo periodo. La migliore prevenzione è sempre la relazione genitoriale fatta di attenzione e ascolto (e non controllo o interrogatorio), lo sguardo d’amore dei genitori tra di loro e nei confronti dei figli, presenza, dialogo, contrasti, impegno, costanza, regole. Regole che sono state bandite anche come vocabolo per evitare possibili reazioni da parte dei bambini e ragazzi, invece vanno recuperate e rinnovate. L’adolescenza sembra essere diventata o considerata una forma di autismo.

Dato l’aumento dei disturbi del comportamento alimentare in varie forme, oltre alla più riconoscibile anoressia (per esempio il “binge eating”, disturbo da alimentazione incontrollata), a scuola gli insegnanti devono essere attenti a cogliere i segnali dei disturbi (per esempio per l’anoressia: assenze frequenti, mani fredde o rosse, mancata sudorazione, perfezionismo, abbigliamento per nascondere il corpo, stanchezza…) non per segnalarli ai genitori o agli stessi adolescenti che ne soffrono ma per dare loro uno sguardo diverso come lo avrebbero desiderato sino a quel momento e che richiedono con il loro disturbo. Quello sguardo che manca sempre più in famiglia e a scuola.

La neuropsichiatra infantile Chiara Davico puntualizza: “I disturbi propri del neurosviluppo ad esordio nei primi anni di vita rappresentano i precursori per traiettorie evolutive psicopatologiche gravi e maggiormente impattanti in adolescenza. In tale ottica promuovere il neurosviluppo, sostenendo una crescita armonica e serena, così come intervenire quando compaiono difficoltà e disturbi deve rappresentare una priorità del sistema sanitario, così come della comunità in senso lato” (il 10 ottobre 2023 in occasione della Giornata mondiale della salute mentale). I genitori devono conoscere le caratteristiche dell’infanzia e gli eventuali disturbi comportamentali (dall’aggressività al mutismo selettivo, disturbo non così raro) e come gestirli per poter, poi, affrontare il ritorno di alcune dinamiche durante l’età adolescenziale dei figli, quali chiusura in se stessi, isolamento sociale, distruttività e altro.

Spesso in età adolescenziale (e successivamente) i ragazzi seguono, si aggrappano a eroi, leader negativi perché vanno alla ricerca di coerenza e coraggio, valori di cui dovrebbero essere portatori gli adulti che, invece, sono sempre meno adulti.

Si ribadisce che l’adolescenza non è un problema ma una fase della vita in cui il ragazzo o la ragazza si proietta (o così dovrebbe essere) verso il proprio progetto di vita. E di questo devono essere consapevoli innanzitutto i genitori che hanno altresì la responsabilità di far vivere ai ragazzi l’adolescenza come un periodo fisiologico e non patologico in cui affiorano dipendenze e disturbi vari.

L’adolescenza è il momento in cui si sperimentano la libertà personale e gli altri diritti inviolabili, in cui ci si lancia nel gioco della vita, in cui si concretizza quanto scritto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: il diritto al riposo, allo svago, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie dell’età, ed a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini dà una bella definizione: “L’adolescenza è il tempo della rinascita. A innescare la trasformazione ci pensa il corpo, che cresce in dimensioni e accoglie vissuti mai provati. Sono messe in vibrazione le certezze infantili: la rappresentazione di sé, il legame con altri, il principio della speranza, l’idea del mondo”.

Genitori alla scuola della vita

Abstract: L’articolo mette in risalto l’importanza del rispetto reciproco e di un sano distacco nel rapporto tra genitori e figli

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “La fiducia per i bambini è la base stessa della loro crescita. Essere genitori vuol dire anche proteggere e tutelare la loro naturale «gioia di vivere», la curiosità e il gusto della scoperta. I piccoli devono tornare a giocare assieme senza pregiudizi e stereotipi che per natura non coltivano”. I figli sono un atto di fiducia della vita e nella vita e hanno bisogno di fiducia. La fiducia è spirito di vita, quello spirito da instillare nei bambini come si arguisce dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dall’art. 29 lettera d della Convenzione. I genitori, però, sembrano sempre più sfiduciati e sfibrati dal loro ruolo risultando inadeguati o inefficaci, per cui da più parti, tra cui lo stesso Novara, si parla della necessità di una scuola per genitori.

Daniele Novara aggiunge: “[…] mi auguro che i genitori continuino a cercare di essere loro stessi la principale risorsa per i loro figli, senza delegare alle etichette neurodiagnostiche la gestione dei bambini e dei ragazzi”. I genitori non devono scoraggiarsi al primo problema o contrasto con i figli e ricorrere a medici ed esperti, anche perché quest’atteggiamento diventa diseducativo. Da ricordare che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).

Novara spiega: “L’eccesso di confidenza corporea può provocare nei bambini una carenza nel riconoscimento dei limiti e dei vincoli di autorità che si ritrova spesso nel rapporto a scuola con gli insegnanti. Ci sono alunni che sembrano disadattati nel saper vivere le figure adulte come diverse da loro stessi”. Il rapporto genitori-figli deve essere asimmetrico e con una giusta distanza, anche per un armonico sviluppo dell’identità e della personalità del bambino, altrimenti l’amore genitoriale rischia di diventare incestuoso in senso lato o, comunque, asfittico o ammorbante. Non a caso nella lettera c dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. Emblematico è anche lo sviluppo uterino in cui il bambino riceve nutrimento dalla madre attraverso il cordone ombelicale, ma lo stesso rappresenta la distanza dalla madre.

Altrove si legge: “Aiutiamo i nostri figli ad allacciarsi le scarpe... ad attraversare una strada trafficata... ad entrare in un parco senza farsi male... I nostri figli hanno bisogno del nostro aiuto anche nel mondo digitale. Anche i bambini hanno bisogno del nostro aiuto con il mondo digitale. Dal restare al sicuro sui social media, a trovare i giochi che aiutano a sviluppare il loro cervello in modo positivo, e consentire loro di divertirsi” (dall’introduzione della guida in inglese “Genitori intelligenti nell’era digitale – Guida digitale per genitori di figli da 0 a 8 anni”, “Smart parenting in the digital age: A HOW-TO GUIDE FOR PARENTS”, pubblicata nel marzo 2019). Essere genitori è aiutare i figli, non sostituirsi ai figli né camminare davanti a loro né allarmarsi né impedire che qualcosa accada: questo ancor di più nel mondo digitale o nell’era postdigitale.

In alcune aree geografiche si deve debellare lo sfruttamento del lavoro minorile. Altrove, invece, si deve lottare contro lo spegnimento delle vite di ragazzi che stanno sempre chiusi in casa o sul divano, che non studiano né cercano lavoro e per i quali si inventano acronimi o etichette (per esempio la sigla inglese NEET, “not (engaged) in education, employment or training”, o l’espressione giapponese “hikikomori”). Oppure ci sono ragazzi che sfruttano i coetanei con atti di bullismo, in baby gang, nella baby prostituzione o altro. È sempre più doveroso l’intervento degli adulti e che facciano gli adulti, in particolare i genitori con l’esempio e con educazione che sia tale e non edulcorazione o adulterazione della realtà e della vita in generale. È quanto si ricava soprattutto dalle fonti normative internazionali, tra cui la Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967) e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare l’art. 29 dove alla lettera d si legge: “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione […]”.

“Mettiamo che debbo ammettere che mi ero fissato su un mio obiettivo, un desiderio che mi aveva mangiato l’intelligenza. Una cosa buona – ma anche no – che mi sembrava primaria. Ma era una mia produzione propria. E qualcuno mi diceva pure che stavo sbagliando e io, orgoglioso, lo mandavo a quel paese. Ecco: quando una cosa prende lo spazio del rapporto con i miei figli, non è buona, non funziona. Allora sai che ti dico: fammi mettere un po’ su un foglio di carta quale è lo spazio intoccabile per i miei figli… orari, giornate, atti che debbo fare con loro… […] E poi, sai che c’è? Che mollo il fantacalcio, và, che non c’entra proprio niente con questa priorità. E sai che fo? Io il sabato il telefono lo spengo proprio, lo accendo solo due volte in tutto il giorno, se per caso ci fosse un’urgenza che mancherei alla carità verso qualcuno, ma vengono prima i miei figli. E mi sa che mi debbo pure far aiutare a capirlo. E praticherò lo sport estremo che più temo: chiedo a mia moglie che ne pensa. Quella finisce che mi dice… e me lo faccio dire” (don Fabio Rosini). Man mano che i figli crescono, i genitori non li ri-conoscono più o rinfacciano loro di non aver mai fatto mancare nulla, eppure avranno fatto mancare la condivisione del tempo o le giuste modalità di dedizione genitoriale. Soprattutto i padri, quelli più presi da lavoro, investimenti, tecnologia, divano, sport o altri interessi, dovrebbero staccare la spina (dal proprio egoismo o orgoglio) e giocare con i figli o osservarli nel gioco. La presenza, lo sguardo, il contatto sono fondamentali e la loro mancanza causa vuoti esistenziali; ciò rientra nel dovere di assistenza morale verso i figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

In passato i bambini (ma pure nel presente) non avevano le scarpe o le avevano più piccole o più grandi dei loro piedi, con la punta bucata, risuolate col cartone. Aspettavano la domenica o la festa o la prima Comunione per mettere quelle nuove o quelle dei fratelli più grandi. Le scarpe, simbolo di crescita, cammino, cambiamento, rappresentavano una trasposizione emozionale (senso dell’attesa e della sorpresa), trasmissione di valori (sacrificio e condivisione), transizione d’età, un traguardo. Oggi, invece, i genitori tendono ad appiattire i figli anche nell’abbigliamento e nelle calzature, ad acquistare il superfluo, ad anticipare i bisogni, ad annullare i desideri, ad abbondare nelle coccole e nei vezzeggiativi, ad amplificare ogni evento e complimento, ad annientare l’attesa, ad accontentarli senza nemmeno sentirli o, peggio, senza ascoltarne le esigenze. E così i figli crescono in “sovrappeso ed obesi” in senso traslato e manifestano, in taluni casi, disturbi del comportamento alimentare o della condotta o della personalità.

“Credo nei ragazzi di oggi. Molti di loro cercano, vogliono sapere, capire, non vedono l’ora di essere aiutati a camminare da soli” (il cantautore Ivano Fossati). Bisogna dare fiato, fiducia, forza, futuro ai giovani, ovvero il meglio di sé e non cose tanto per accontentarli al momento. Come nell’immagine di Dio Creatore descritta nella Genesi e nell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina che ha un valore antropologico e pedagogico al di là di ogni credo religioso. La scienziata Rita Levi Montalcini “I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte”. I genitori non devono dare ai figli dei contentini affinché stiano zitti, non diano fastidio, non facciano capricci, non abbiano poi nulla da rinfacciare, ma dare ai figli dei contenuti affinché nel crescere abbiano voce nella vita, possano dire la loro e non essere alla mercé degli altri o di altro. I genitori non devono contentare i figli ma contenere i figli per orientarli nella vita, come si addestra un cavallo entro la staccionata per prepararlo al seguito. I figli non devono essere la contentezza dei genitori, ma avere contentezza della loro vita. I figli non devono essere contenitori di cose (vestiti, giocattoli o altro di materiale ed effimero), ma avere contezza del valore della vita.

I genitori si preoccupano tanto della salute fisica dei figli e si alleano e si battono in caso di malattie oncologiche o invalidanti dei figli, ma non fanno altrettanto per il “cancro” o le invalidità che causano dentro i figli in caso di rapporti conflittuali o altre scelte egoistiche o deleterie. L’infanzia negata diventa, poi, età adulta “legata” o “segata”.

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer scrive: “L’esperienza dell’abbandono da parte dei genitori nella prima infanzia ha conseguenze notevoli per lo sviluppo del cervello” (in “Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa”, 2018). I genitori devono fare attenzione ad ogni forma di “abbandono”, tra cui la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cod. pen.).

Un bambino di pochissimi anni d’età, poco distante dai genitori, con un ombrello più grande di lui: un’immagine simbolica di quei bambini che devono pararsi da tempeste, familiari e non, ed anche metafora del doversi preparare ad affrontare autonomamente le intemperie o intemperanze della vita.

Dalla parola “genitori” si ricava “torni” (plurale di “tornio”), perché insieme, con l’educazione coerente e corale con altri soggetti educativi, plasmano la massa della personalità del bambino che prenderà forma nel tempo. Solo, però, dalla parola al plurale “genitori” si ricava “origine”: questo è significativo per i genitori (attuali e potenziali) e per tutti.

Genitori, geni-tori: devono essere abili come geni e forti come tori e possibilmente in due, né di più né di meno. I genitori non devono, peraltro, fare i sindacalisti dei figli ma, piuttosto, i sindaci dei figli: dare orientamento all’amministrazione della loro vita, farsi aiutare da altri in questo compito, applicare la democrazia nelle relazioni, rispettare diritti e doveri di ognuno. E i figli sono e restano cittadini della loro vita.

“Il figlio è una cosa importante. - Non si finisce mai di imparare quanto!” (da una fiction). La prima cosa che devono imparare i genitori per essere genitori è che il figlio è altro da sé. 

L’articolo 144 del codice civile nella pratica

Sintesi: La relazione di coppia non è un traguardo ma un processo continuo in cui ci si avvicina e ci si allontana

Abstract: L’articolo propone una rilettura dell’art. 144 del codice civile per evidenziarne la portata innovativa e la sua attualità alla luce delle relazioni sempre più conflittuali o disfunzionali

Sposarsi non è programmare, organizzare e fare il viaggio di nozze, ma programmare, organizzare e fare il viaggio oltre le nozze, perché il matrimonio stesso è un viaggio. Ci si può pure allontanare ma l’importante è essersi muniti di un buon navigatore per far ritorno a casa, alla vera dimensione di “casa”.

Il rapporto di coppia è come il rapporto di un musicista col suo strumento. Lo conosce, lo accorda, lo pulisce con gli appositi panni morbidi e kit di pulizia, lo custodisce, si rivolge ai centri di assistenza per le eventuali riparazioni. Deve avere orecchio, lo sguardo almeno di tanto in tanto allo spartito, provare e riprovare i brani, portare il tempo e rispettare il tempo, cimentarsi anche in nuovi arrangiamenti, provare trasporto con tutto il corpo. E andare avanti nonostante qualche nota stonata o qualche concerto non riuscito. Giuridicamente i principali passi e passaggi sono indicati nei tre articoli letti a conclusione del rito del matrimonio, artt. 143, 144 e 147 cod. civ., in particolare nell’art. 144 rubricato “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia”.

La psicologa e psicoterapeuta Anna Oliviero Ferraris scrive: “La coppia da complementare è oggi divenuta simmetrica: padre e madre sono impegnati professionalmente per lo stesso numero di ore, i loro ruoli di servizio in casa e accudimento dei figli sono sostanzialmente intercambiabili, ma per “reggere” questa impostazione egualitaria e democratica è necessaria una grande sintonia, e la fatica della coppia a volte è molto elevata” (in “Famiglia”, 2020). La vita di coppia comporta una fatica come il lavoro, per cui alla coppia si possono applicare in senso lato i principi dell’art. 46 della Costituzione relativo alle aziende in cui si parla di diritto a collaborare alla gestione (parola che ha la stessa origine di “gesto”, quei gesti di cui si ha bisogno nella coppia e in famiglia). Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 il marito era il capo della famiglia (art. 144 cod. civ. previgente) per cui non vi erano la fatica e, al tempo stesso, la fecondità del confronto e del contrasto. Oggi, però, si è a “conoscenza” che la vita di coppia comporta delle difficoltà, anche in quello che può sembrare banale (per esempio sopportare gli odori sgradevoli dell’altro), per cui occorre che si prenda anche “coscienza” e “consapevolezza” di ciò.

Essere sposati non è vedere il mondo nello stesso modo ma guardare il mondo nella stessa direzione. Non significa aggiungersi all’altro ma congiungersi (conservando così la propria identità individuale), non livellarsi all’altro (come nelle relazioni disfunzionali di simbiosi o dipendenza affettiva) ma elevarsi l’un l’altro; non a caso il legislatore ha previsto: “I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare” (art. 144 cod. civ.). Ci si può scontrare, anche andare dalla parte opposta, ma quel che conta è ritrovarsi allo “stesso indirizzo”.

Interessanti le riflessioni e le indicazioni fornite da Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà: “Tagliandi frequenti. Un’automobile, perché duri nel tempo, ha bisogno di revisioni al motore o all’impianto di condizionamento. E la coppia? Quante volte ci fermiamo per dirci: «Come stiamo noi due?», «Dove siamo come coppia?». Imponetevi di prendervi una serata ogni due settimane e un fine settimana ogni sei mesi, con l’obiettivo di fare un check-up sull’amore e di comprendere su quali cose sia opportuno investire per continuare a nutrirvi”. L’autonomia privata consente ai coniugi (o conviventi more uxorio) di stilare una sorta di programma, progetto o decalogo di vita in comune per ritrovarsi sui punti condivisi e ritrovarsi agli appuntamenti in due e con se stessi: è quell’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ..

Ancora Edoardo e Chiara Vian: “Quante volte anche nella relazione di coppia ci costruiamo i nostri giudizi sul partner e poi questi divengono metro con cui misuriamo la complessità dell’altro! Un particolare diventa un assoluto che cristallizza l’altra persona. Mi dimentico di fare una commissione e divento un inaffidabile, in una discussione perdo la pazienza e divento un irascibile, ti muovo una critica e divento un lamentoso. Quante coppie ho visto spararsi addosso giudizi ormai fossilizzati nel tempo, in cui i fatti risalivano ad anni prima”. La relazione di coppia non è un traguardo ma un processo continuo in cui ci si avvicina e ci si allontana ma alla base deve permanere il rispetto, soprattutto in senso etimologico, cioè “guardare indietro, guardare di nuovo”, quello sguardo che diventa sempre più distratto o inesistente nelle coppie e nelle famiglie di oggi. Per la coppia coniugale fondamentale è il concordare l’indirizzo della vita familiare cui tornare e in cui rincontrarsi.

Gli esperti Edoardo e Chiara Vian continuano: “Spostate lo sguardo dal vostro ombelico. Una parte della vostra persona è votata all’appagamento: non giudicatela, fa solo il suo lavoro, ma imparate a gestirla, non fatevi dominare da essa. La realtà e il vostro partner non sono lì per farvi star bene, per corrispondervi, sono semplicemente quello che sono. Imparate a riconoscere in voi quella parte che vorrebbe mettervi al centro di ogni cosa, per essere venerati, e reindirizzatela, illuminatela da un’altra prospettiva, quella della libertà da voi stessi”. Sposarsi è spostarsi dal proprio ego, dal proprio mondo e posarsi sull’uscio della vita dell’altro, del “mondo del noi”. Tra le più rilevanti innovazioni legislative della riforma del diritto di famiglia le locuzioni “esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa” nell’art. 144.

“9. Un litigio è qualcosa di sgradevole, ma se sappiamo «interrogarlo» può raccontarci tantissime cose interessanti. Come mai quella reazione mi ha provocato quell’emozione? Che cosa dice di me? A quali elementi della mia storia si aggancia? Quale bisogno affettivo insoddisfatto si cela dietro? Quale idea di me racconta? E nell’altra persona che cosa sarà successo? Quale vulnerabilità sarà stata toccata? Come o cosa potrei, o potremmo, fare la prossima volta perché le cose vadano meglio?” (dal “Decalogo per la (buona) coppia” dei coniugi Vian). Litigare non fa male alla coppia perché si deve anche saper litigare, pertanto nell’indirizzo concordato della vita familiare bisognerebbe altresì prevedere uno “spazio neutro” rispetto alla famiglia in cui ciò possa avvenire.

“Forse”, “insieme”, “di nuovo”: alla base della comunicazione, costruzione, consolidamento della coppia. E non usare espressioni “sempre”, “mai”. Anche così ci si concorda sull’indirizzo della vita familiare. Un’altra parola chiave dell’art. 144 è “concordare”, che è più e oltre l’andare d’accordo o raggiungere un accordo come in una qualsiasi relazione interpersonale. “Con-cordia” in una coppia e in famiglia: “Ciò non significa che io debba rispondere di «sì» a ogni loro richiesta, ma che devo frenare il mio atteggiamento respingente, saccente, e scegliere di avere un ascolto comprensivo, accogliente, paziente, che sa anche dire di «no», ma senza la presunzione che l’altro si sottomette automaticamente alla mia presunta autorità” (Edoardo e Chiara Vian). La famiglia nasce da un incontro di due ed è un quotidiano andarsi incontro, è un esercizio di medietà e l’art. 144 cod. civ. ne fornisce la bussola. Quando si perde il controllo è auspicabile che si ricorra a un terzo, come la mediazione familiare, non per avere ragione ma per ritrovare la via della ragione, come già disposto nell’art. 145 cod. civ. caduto in desuetudine.

La linea parabolica di alcune coppie: dal lisciarsi al lasciarsi, dal duetto al duello, dalla corte alla morte (interiore o fisica).

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer spiega: “La vita in coppia è una risorsa per una vita più sana e lunga. Ma non tutte le relazioni sono sane e hanno un effetto positivo sulla salute. In una coppia, sono di solito le donne che vivono in modo più intenso e che soffrono di più in un rapporto non felice. Nel caso di una separazione o un divorzio, l’effetto negativo sulla salute di tutte le persone coinvolte non è da sottovalutare” (in “Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa”, 2018). Nella vita di coppia, sin dall’inizio, non ci si deve accontentare, ma la vita di coppia deve accontentare. La vita di coppia contribuisce al proprio benessere e a quello altrui, pertanto non è un fatto marginale o solo personale. Realizza anche una forma di solidarietà e di economia. Si pensi agli effetti dei conflitti familiari, dalle depressioni personali ai costi processuali. “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la Promozione della salute, 1986). 

Si dice della scuola

“Oggi hanno deciso di distruggere l’arte e la cultura, e senza cultura la società è barbarie” (cit.). Disincentivare l’arte e la cultura è bloccare le nuove generazioni, le emozioni, la crescita umana, quello sviluppo che si è avuto sin dai graffiti preistorici. Si è tutti responsabili, a cominciare da coloro che non si sentono responsabili, che sono pronti a puntare l’indice ma non a muovere un dito per darsi da fare. Come l’atteggiamento di molti genitori avvezzi ad accusare la scuola, a ricusare i propri errori e a scusare i figli.

La scuola sembra essere diventata merce alla mercé dei genitori e di altri soggetti. La scuola andrebbe rivista dal modo di reclutamento del personale all’edilizia ma, purtroppo, ogni governo introduce una riforma che, talvolta, è solo lessicale o di appesantimento burocratico.

Sulla scuola di oggi la giurista Elisabetta Frezza: “Si è trasformata in un incrocio tra un luna park e un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva. Una sorta di allevamento di ominidi in batteria, allestito come un villaggio vacanze, con animatori addestrati, i poveri docenti” (in un’intervista dell’8 agosto 2022). L’apprendimento deve avvenire divertendosi ma la scuola non è e non deve essere ritenuta luogo di divertimento come o peggio di altri destinati a ciò.

A scuola non si dovrebbero apprendere (solo) le materie ma la materia della vita, la disciplina, come lo stare insieme e il bello della vita. Da questo discenderebbero poi le materie, le discipline. Per esempio la matematica non usa il linguaggio della solidarietà con divisione, addizione, moltiplicazione...? La scuola ha un valore costituzionale: “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.).

La scuola è la fucina dell’italianità. “Parlare e scrivere correttamente in italiano è la condizione necessaria per vivere appieno il nostro ruolo di cittadini consapevoli a scuola, nel lavoro e nell’esercizio stesso dei diritti civili” (il giornalista Alessandro Bettero). La lingua italiana è elemento fondante e fondamentale dell’italianità, quel patrimonio storico-culturale, che trova i suoi fondamenti nella Costituzione, in tutta la Carta costituzionale e in particolare nell’art. 9, la cui nuova formulazione finisce con “anche nell’interesse delle future generazioni”.

La scuola non deve aprirsi solo per gli open day e non deve diventare una “prigione” per gli alunni così come spesso è percepita.

Lo storico gesuita Giancarlo Pani analizza: “Ci sono bambini di meno di tre anni che vivono in carcere con le loro mamme. È questo il loro interesse? Certamente no. Se fosse rispettato l’articolo 3 [Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia], nel caso di donne in carcere, l’esigenza primaria del bambino imporrebbe che madre e figlio vivessero in casa loro, in ragione della dignità del bambino e del suo accudimento. Gli adulti dovrebbero trovare altre forme per proteggersi rispetto alla pericolosità sociale delle loro madri. Se l’articolo 3 venisse osservato, quando nasce un bambino in una famiglia, tutte le regole e gli orari dovrebbero cambiare per rispettare il suo interesse, compresi gli orari di lavoro, perché i genitori possano dedicargli tutto il tempo necessario. Non è un caso che i Paesi del Nord prevedano due anni di maternità: numerose ricerche dimostrano oltretutto che solo in apparenza questo periodo prolungato sarebbe una spesa sociale, perché, in realtà, i bambini che hanno potuto essere allattati e accuditi più a lungo risultano generalmente più sani, e quindi costano meno alla società” (in “I diritti dell’infanzia”, 2019). Nel mondo odierno i bambini passano da una “gabbietta” all’altra: casa, abitacolo dell’automobile, scuola, ludoteca, palestra, doposcuola, casa dei nonni… Ci si preoccupa della sicurezza, della privacy e di altro ancora, ma vengono meno la naturalezza e la bellezza dell’infanzia.

La priorità dell’interesse del fanciullo in ogni procedimento, stabilita dall’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, purtroppo in Italia è trascurata anche nella quotidianità, per esempio a scuola, dove spesso si continua a procedere per stagioni dell’anno senza chiedersi se ciò possa giovare o meno alla formazione dei bambini. Gli educatori, come i giornalisti, dovrebbero essere “sentinelle della verità”, sempre e solo nel bene e per il bene dei bambini senza alcuna dietrologia adultistica.

Non bisogna scolarizzare precocemente i bambini perché gli effetti sono deleteri se non devastanti. Tra le varie conseguenze, all’ingresso nella scuola primaria i bambini possono provare stanchezza o disamore e possono manifestare vari “disturbi” che gli adulti si affannano a etichettare o certificare, quando in realtà si tratta di tempi non maturi o di abilità non acquisite nel modo giusto. Anche il bullismo, segnale di debolezza o fragilità, può essere un grido di aiuto da parte di quel bambino che non ce la fa a sostenere pressioni e aspettative dei genitori e della scuola.

Una volta i bambini mancini subivano pregiudizi e interventi educativi errati. Questo dovrebbe mettere in guardia da etichettamenti, acronimi o pratiche preconfezionate che si è soliti applicare a scuola nei confronti dei bambini in generale (per esempio BES, bisogni educativi speciali).

La legislazione (in particolare quella sociale) e la cultura scolastica sono cambiate nei confronti dei bambini con disabilità sino a giungere al concetto di “inclusione”. Anche questo concetto, però, andrebbe superato perché dà comunque l’idea di un sistema chiuso o precostituito. Ogni bambino ha una sua personalità, sue capacità, specificità e difficoltà per cui si potrebbero recuperare o rimarcare altri concetti come “personalizzazione”, come si evince pure dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 23 par. 1 relativo alla disabilità e l’art. 29 par 1 lettera a relativo all’educazione. “La società e la scuola non dovrebbero imporsi l’inclusione, ma lavorare attraverso le specificità di ciascuno per costruire l’orizzonte. […] Ma allora che cosa significa cambiare? Di fatto un mutamento di forma e di formato, qualcosa che prima si verifica all’interno per poi rivolgersi al di fuori di sé. Un po’ come un musicista che impara a maneggiare e a comporre con il proprio strumento fino ad accordarsi con gli altri in un’orchestra capace di produrre insieme nuove sinfonie” (il giornalista Claudio Imprudente).

Esemplare il servizio “pedibus” nelle città: bambini e ragazzini che vengono accompagnati a piedi a scuola da volontari e altre figure adulte procedendo lungo una corda e intonando canzoni come boy scout. Così la scuola e la vita, così la scuola della vita: accompagnare e accompagnarsi lungo le strade facendo cordata come gli alpinisti. Nella vita dei giovani bisogna indicare e portare la luce affinché, poi, sappiano trovare la loro strada.

La scuola dovrebbe tornare (o, almeno, provare a tornare) al suo significato etimologico e stimolare il naturale atteggiamento poetico dei bambini e dei ragazzi e fare così naturalmente “poesia”, che è produzione dal sé e del sé. A scuola avvicinare i bambini alla poesia non dovrebbe essere far imparare poesie a memoria, farle imparare più lunghe per dimostrare quanto siano bravi a memorizzarle, scegliere poesie in base agli eventi, periodi o mode (anche editoriali) del momento, secondo il proprio punto di vista adulto, preparare recite e saggi di fine anno, né far studiare poeti, spiegare e far rispettare la metrica. La poesia è linguaggio, emozione, ascolto, espressione, è come la primavera: va annusata, sentita sulla pelle, interiorizzata. Educare alla poesia, coltivare l’atteggiamento poetico è, pertanto, far provare emozioni, far conoscere la propria interiorità e farla esprimere liberamente. La poesia contribuisce allo sviluppo pieno ed armonioso della personalità del fanciullo e a creare un’atmosfera di felicità, amore e comprensione (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Si può parlare di una sorta di “diritto alla poesia” come diritto all’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e diritto alla libertà di espressione (art. 13 Convenzione).

Significativo il monologo del regista Paolo Sorrentino sulla scuola (20 gennaio 2023), in particolare sui genitori nella scuola per i quali usa l’espressione “entusiasmo immotivato” e conclude dicendo che dell’educazione dei genitori si dovrebbe occupare Dio. La scuola è diventata uno show sottoposto all’indice di gradimento, audience, share dei genitori che fanno da fan dei figli e critici televisivi degli insegnanti. Anziché manifestare entusiasmo immotivato per ogni minima cosa (anche irrilevante, per esempio dire ripetutamente “bravo/a, bravissimo/a” al/la figlio/a durante il semplice svolgimento dei cosiddetti compiti a casa), i genitori dovrebbero instillare entusiasmo motivato nei figli (ai quali trasmettono, invece, tutt’altro).

La scuola deve co-progettare e non diventare un progettificio e un’applicazione di programmi: i bambini stessi sono progetti di vita e gli adulti di riferimento devono contribuire a “fare cantiere”.