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Il diritto dei bambini alla lettura

 

 

 

 

Quanto sia importante ed efficace la lettura precoce, sia per stimolare lo sviluppo cognitivo e lessicale dei bambini sia per costruire e cementare le relazioni familiari (la memoria familiare), ormai è un dato acquisito (anche grazie al fondamentale lavoro culturale realizzato in questi anni dal programma Nati per leggere).

Secondo l’esperto Federico Batini: “La lettura ad alta voce gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’empatia fin dall’età prescolare, ricoprendo un ruolo determinante nel promuovere un positivo sviluppo psicosociale, fondamentale per la messa in atto di comportamenti empatici. Comprendere le intenzioni, le emozioni ed entrare in empatia con il personaggio di un racconto può essere di aiuto al bambino per il corretto sviluppo e la decodifica del mondo reale e dunque facilitargli le relazioni. Entrare in relazione ed empatizzare con un personaggio non implica solo la comprensione del suo stato emotivo, ma anche la capacità di provare le sue emozioni”. Generalmente non piace leggere perché la lettura viene posta come un dovere e non come un piacere e ancora meno come la possibilità di leggere in se stessi e in mondi inesplorati.

Batini aggiunge: “Un’altra indicazione molto importante riguarda la gratuità: la lettura ad alta voce non deve essere collegata a attività altre, si tratta di una didattica in sé conclusa e di un importante gesto di attenzione e stimolo che non chiede qualcosa in cambio. La didattica della lettura ad alta voce si completa con la fase della socializzazione: un momento in cui i bambini e le bambine possono esprimere il proprio punto di vista. E questo si può facilitare attraverso domande stimolo, domande aperte: “Secondo voi come andrà a finire? Quale personaggio vi è piaciuto di più perché? E voi al posto di quel personaggio che cosa avreste fatto?” Ogni intervento deve essere valorizzato: da questo scambio i bambini e le bambine imparano moltissimo dai contributi degli altri”. La lettura, ancor di più quella ad alta voce, è multifunzionale: è un atto di libertà, educazione alla libertà, donazione di tempo, proposta di una chiave di lettura del mondo interiore e quello esteriore. Ancora Batini suggerisce: “Bisogna fare la lettura ad alta voce, in modo quotidiano, e servirsi pure delle varie metodologie, tra cui il Kamishibai, ma non teatralizzare la lettura che, altrimenti, non è più lettura” (in un webinar del 18-10-2023). Quel che conta è che l’insegnante sia lettore, un buon lettore, appassionato e appassionante, convinto e coerente con il suo stile educativo. Non è necessario che si specializzi come “promotore della lettura”.

Anche l’esperta Barbara Dragoni afferma: “Nelle prime settimane di scuola, è estremamente importante instaurare un’educazione alla lettura corretta e funzionale, che rappresenta una priorità didattica fondamentale per le discipline umanistiche (e non solo). Leggere insieme libri o parti di essi, di diversi generi e formati, e condividere opinioni e interpretazioni, consente di riflettere, discutere, conoscersi reciprocamente, iniziare ad empatizzare e, in definitiva, gettare le basi per creare uno spirito di autentica comunità. La lettura di libri permette anche di suscitare curiosità e interesse verso la lettura stessa e può fin da subito far scoprire che leggere può diventare un vero e proprio piacere”. Leggere ai bambini è stimolare la loro autonomia di pensiero, favorire il benessere e prendersi cura di loro nell’interezza della persona, in conformità della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei (2021).

Bisogna educare alla lettura delle immagini senza però “bombardare” i bambini, soprattutto in tenera età, con ogni sorta di immagine (sovraccarico di cartelloni, dipinti sui vetri, LIM) dato già l’“inquinamento visivo” dilagante in ogni ambiente. La scuola deve fornire gli strumenti per far imparare ad “osservare” le immagini, saperle distinguere, vedere oltre, e sviluppare così l’immaginazione che, invece, risulta spesso frenata. Basti leggere i suggerimenti contenuti nella Carta dei diritti dei bambini all’arte ed alla cultura (Bologna, 2011). Andrea Sola, promotore della pedagogia libertaria, spiega: “L’utilizzo delle immagini come forma autonoma di linguaggio è spesso trascurato nei percorsi scolastici, ma in realtà, ogni esperienza di vita, ogni ricordo autobiografico e ogni nuovo apprendimento possono essere descritti anche attraverso le immagini, non solo con il linguaggio discorsivo. È quindi utile sviluppare un’alternativa pedagogica che sappia utilizzare gli strumenti espressivi di natura estetica, compresi quelli digitali, per un loro uso formativo”.

Mediante l’arte e la cultura si forniscono ai bambini strumenti imperituri e proficui con cui leggere e interpretare la realtà superando la limitatezza e la caducità delle cose materiali. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Lo scrittore Alessandro D’Avenia puntualizza: “Alla liquidità del mondo di oggi si risponde con la profondità della propria identità; solo chi ha un’anima antisismica può resistere ai terremoti contemporanei, perché solo quando l’anima è pronta allora sono pronte anche le cose e non viceversa”. Attraverso la lettura si fanno vivere storie ed esperienze di ogni sorta per cui si contribuisce alla costruzione di “un’anima antisismica”.

Anche la scrittrice Michela Murgia conviene: “[…] noi non abitiamo solo gli indirizzi dove ci arriva la posta: abitiamo anche nelle storie che ci sono state raccontate sin da quando eravamo bambini. Meno ne abbiamo a disposizione, più angusta e cupa è la casa mentale in cui ci svegliamo ogni mattina”. È importante narrare, raccontare, raccontarsi, leggere e inventare storie con i bambini perché si forniscono vari linguaggi e si stimolano le intelligenze, si contribuisce alla formazione della loro identità che è fatta di elementi che sono propri di quel singolo e di elementi che sono “identici” agli altri.

A scuola si dovrebbero non fare le domande agli alunni ma suscitarle e ascoltarle. Leggere non è solo leggere libri ma leggere in sé e leggere la realtà, intus legere e inter legere (quello che è il significato etimologico di “intelligenza”). “Spesso le domande dei bambini ci lasciano spiazzati e di solito non rispondiamo cercando di sviare o ingarbugliare il discorso o rimandare a quando saranno più grandi e potranno capire. Forse perché gli adulti non sono all’altezza delle domande serie e vere dei bambini (…). Si incontra poi la scuola dove spesso si attribuisce più importanza al saper recitare risposte che al fare domande. E poco a poco si smette anche di sperimentare il mondo, di cercare soluzioni autonome alle proprie domande; le scienze si studiano sul libro, magari leggendo inizialmente il capitolo sul metodo sperimentale” (Enrica Giordano, esperta di didattica della fisica). La lettura a scuola dovrebbe essere preceduta e continuata in famiglia. “La famiglia va sostenuta, aiutata, ma va anche raccontata. In un mondo di crescenti solitudini, ma con un bisogno intatto di affettività e di calore familiare […] c’è bisogno di un cambiamento culturale. Essere genitori deve tornare ad essere socialmente premiante, non un ostacolo alla realizzazione personale in particolare delle donne. Solo con un clima accogliente, nella concretezza dell’organizzazione sociale e nella percezione di un sistema favorevole, la famiglia tornerà ad essere centrale e la discesa demografica potrà essere fermata. E […] partendo da un rapporto – quello tra la famiglia e il libro – che è inscindibile da secoli: ogni romanzo racconta in qualche modo di una famiglia, ogni storia è una storia di famiglia” (Eugenia Roccella, ministro per la famiglia). In famiglia si deve leggere, raccontare, narrare, perché si contribuisce alla costruzione dell’identità (anche la cosiddetta identità narrativa), al benessere di ciascun membro e dell’intera famiglia e tutto ciò si riflette all’esterno. A questo si aggiunge quanto la lettura in casa sia rilevante anche per il coinvolgimento dei padri. Leggere (ad alta voce) è fornire ai bambini strumenti per l’esercizio dei propri diritti, contribuisce a impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione (parafrasando l’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Il diritto dei bambini all’immaginazione

 

 

Abstract: Fondamenti normativi e non di un diritto di libertà non scritto dagli adulti ma iscritto nella natura stessa dei bambini e spesso trascurato o addirittura negato

(Relazione presentata il 10-11-2022, in occasione della giornata di studi sull’immaginazione dei bambini, organizzata dal Centro studi Piero Gobetti con il patrocinio del Dipartimento di filosofia e scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Torino)

 

1.  Prodromi del diritto all’immaginazione

“Evocazione e combinazione di immagini a fini per lo più artistici e dilettevoli, ma spesso anche inventivi. Il processo immaginativo può d’altra parte associarsi al pensiero logico, e aiutare lo sviluppo del ragionamento con apporti intuitivi. […]”. Così la psicologa Angiola Massucco Costa, negli anni ’60, definiva l’immaginazione rispecchiando le teorie e le ricerche psicologiche del tempo.

Nel 1973 Gianni Rodari pubblicava la “Grammatica della fantasia”– il suo unico volume teorico tanto da poter essere considerato il suo manifesto teorico – che sembra contenere una sorta di “statuto” dell’immaginazione dei bambini: “Io spero che il libretto possa essere ugualmente utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. «Tutti gli usi della parola a tutti» mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo” (nel capitolo introduttivo “1. Antefatto”).

Rodari scriveva ancora: “[…] l’immaginazione non è una qualche facoltà separata della mente: è la mente stessa, nella sua interezza, la quale, applicata ad un’attività piuttosto che ad un’altra, si serve sempre degli stessi procedimenti. E la mente nasce nella lotta, non nella quiete. […] sant’Agostino descrive il lavoro dell’immaginazione che consiste, secondo lui, nel «disporre, moltiplicare, ridurre, estendere, ordinare, ricomporre in qualunque modo le immagini»...”.

All’immaginazione è dedicato l’ultimo capitolo del testo, il 44°, intitolato “Immaginazione, creatività, scuola” (titolo che pare essere un sillogismo o una trilogia), in cui Rodari denunciava: “Non c’è poi da meravigliarsi se l’“immaginazione”, nelle nostre scuole, sia ancora trattata da parente povera, a tutto vantaggio dell’“attenzione” e della “memoria”; se ascoltare pazientemente e ricordare scrupolosamente costituiscano tuttora le caratteristiche dello scolaro modello; che è poi il più comodo e malleabile”. Modello che taluni continuano a promuovere!

Esistono, però, indici normativi che consentano di parlare di un vero diritto dei bambini all’immaginazione? La risposta può essere affermativa perché, in vari atti normativi e non, si colgono elementi che supportano la configurazione del suddetto diritto. 

2.  Fondamenti del diritto all’immaginazione 

Nel giugno 1967 un illuminato Comitato italiano per il gioco infantile (CIGI, fondato nel 1961 dal pedagogista Dino Perego, coadiuvato poi da altri “pedagogisti del gioco”, Amilcare Acerbi e Mauro Speraggi), riunitosi in Convegno nazionale a Roma, al termine dello stesso e considerata l’importanza e il valore dei grandi documenti internazionali, formulò degli orientamenti per l’adattamento alla realtà del nostro Paese dei principi in essi affermati, emanando la pionieristica Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro. È significativo in questo documento il ripetuto riferimento allo “sviluppo” del bambino (artt. 1, 3 e 4) e la conclusione con la locuzione di “sviluppo, in senso moderno, della società italiana” (art. 8). Lo sviluppo è il contrario di inviluppo, è l’uscire da un inviluppo, e l’immaginazione è certo uscire dall’inviluppo della realtà circostante o attuale, è sviluppo del mondo e della mente dell’infanzia e conseguentemente “sviluppo, in senso moderno, della società italiana”. Altre espressioni significative usate nella Carta romana sono l’aggettivo “libero”, l’aggettivo “suo”, “autonomia del fanciullo” (art. 3), “non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” (art. 3), “difesi dai pericoli del traffico e della vita intensa” (art. 5). Tutte indicazioni che richiamano l’essenza e la rilevanza dell’immaginazione. Si consideri, in particolare, il potere di immaginare una vita propria e migliore rispetto a quella attualmente tangibile uscendo anche dai pericoli del traffico della navigazione nel web.

Altri elementi fondanti del diritto all’immaginazione si possono ricavare dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986), da alcune rubriche e da alcuni passaggi: “Le persone non possono raggiungere il loro potenziale di salute se non sono capaci di controllare quei fattori che determinano la loro salute”; “Gli inestricabili legami che esistono tra le persone e il loro ambiente costituiscono la base per un approccio socio-ecologico alla salute”; “I cambiamenti dei modelli di vita, di lavoro e del tempo libero hanno un importante impatto sulla salute. Il lavoro e il tempo libero dovrebbero essere una fonte di salute per le persone”.

L’attività immaginativa svolge una funzione catartica, terapeutica e preventiva sulla salute delle persone (e ancor di più nei confronti di bambini e ragazzi), infatti esistono varie terapie immaginative.  

Già lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach (1844-1922) usava le cosiddette “macchie” (clecsografie, frutto di precedenti studi e applicazioni dello psichiatra Eugen Bleuler e del medico e scrittore Justinus Kerner) per stimolare l’immaginazione dei pazienti e accedere meglio al loro mondo interiore.

Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989) si possono individuare numerosi riferimenti normativi per dare fondamento al diritto all’immaginazione.

Nel Preambolo si legge che “il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione”. Si potrebbe riferire ogni parola di questo capoverso all’immaginazione ma quella che offre più spunti di riflessione è l’aggettivo “armonioso”, da “armonia”. “Armonia” (termine musicale) etimologicamente deriva dalla radice “ar” che è la stessa di “arte” e “aritmetica”. Ebbene, l’armonia, l’arte e l’aritmetica sono frutto dell’immaginazione nonché fonte di felicità intesa come fecondità (in primis del pensiero). 

Nell’art. 12 par 1 si parla di “assicurare al fanciullo capace di formarsi una propria opinione il diritto di esprimerla liberamente e in qualsiasi materia”.

Nell’art. 13 par. 1: “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere”.

Nell’art. 14 si legge: “rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”.

Nell’art. 23, relativo al fanciullo fisicamente o mentalmente disabile, nel par. 3 si parla tra l’altro di “occasioni di svago tendenti a far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo sviluppo individuale più possibile, incluso lo sviluppo culturale e spirituale”.

Nell’art. 24, sulla salute, si stabilisce il diritto del fanciullo al godimento dei più alti livelli raggiungibili di salute fisica e mentale.

L’art. 27 par. 1 riconosce il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale.

Nell’art. 29 par. 1 lettera a: “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”.

L’articolo che offre più fattori per il riconoscimento di un diritto all’immaginazione è indubbiamente l’art. 31, quello relativo al gioco: alla luce di quest’articolo l’immaginazione è definibile quale forma di riposo, di svago, di gioco (come il gioco euristico), un’attività ricreativa che fornisce altresì strumenti per partecipare liberamente e pienamente alla vita culturale ed artistica. A proposito di vita culturale ed artistica basti pensare alla Divina Commedia, frutto dell’immaginazione poetica di Dante e a tutta la cultura che ne è derivata.

Nell’art. 33 si prevede di adottare ogni appropriata misura anche di carattere educativo per proteggere i fanciulli contro l’uso illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope e per prevenire l’impiego di bambini nella produzione illegale e nel traffico di tali sostanze.

L’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ha ispirato l’elaborazione e l’emanazione della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (pubblicata a Bologna nel 2011), nel cui articolato si trovano altri elementi fondanti del diritto all’immaginazione. Nella Carta si legge che “I bambini hanno diritto a sperimentare i linguaggi artistici in quanto anch’essi saperi fondamentali; a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze; a sviluppare, attraverso il rapporto con le arti, l’intelligenza corporea, semantica e iconica” (articoli o principi 2-4). L’immaginazione contribuisce evidentemente a sperimentare linguaggi artistici, a nutrire le intelligenze emotiva, corporea, semantica e iconica e a sviluppare sensibilità e competenze. Come pure l’immaginazione scaturisce nei bambini dall’“avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (dall’art. 6 della Carta).

Nella Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance (BICE, Ong istituita a Parigi nel 1948) “Pour chaque enfant, un avenir” (Parigi 2007) si legge: “Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso. Il BICE favorisce questa “resilienza” che permette al bambino di ricostruirsi. Guardare allo sviluppo del bambino in tutte le dimensioni. […] Il suo benessere psicologico è anche essenziale”. L’immaginazione è certamente una risorsa, fonte di resilienza, sviluppo di tutte le dimensioni e giova al benessere psicologico del bambino. Si pensi allo scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875), lo “Shakespeare dei bambini”, che sin da piccolo immaginava una vita diversa, un riscatto dalla povera situazione familiare facendo così dell’immaginazione (grazie alla fortuna di aver avuto un padre lettore vorace e fantasioso) il suo punto di resilienza. Ha trasfuso tutto ciò nell’autobiografia “La fiaba della mia vita” e anche nelle sue fiabe, in particolare ne “Il brutto anatroccolo”. È stato il primo grande scrittore a rivolgersi direttamente ai bambini con fiabe sognanti (e non moraleggianti come le altre scritte sino allora) e allo stesso tempo profonde, infondendo fiducia e ottimismo ed esempi di superamento di dolori e difficoltà anche della crescita. Lo stesso può dirsi, in Italia, di Carlo Lorenzini (1826-1890), in arte Collodi, autore di Pinocchio e altre storie di bambini birichini o monelli (agli occhi degli adulti).

Altri indici normativi si possono ricavare dall’“Agenda di Seul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione all’arte” (uno dei documenti chiave risultanti dalla seconda Conferenza mondiale dell’UNESCO sull’educazione artistica, svoltasi a Seul, nella Repubblica di Corea, dal 25 al 28 maggio 2010). Rilevante il punto 3.a “Avvalersi dell’educazione all’arte per potenziare la capacità creativa e innovativa della società” ove si prevedono le seguenti azioni: I. Avvalersi dell’educazione all’arte sia nelle scuole che nella comunità allo scopo di sviluppare il potenziale creativo e innovativo della popolazione; II. Stimolare attraverso l’educazione all’arte l’introduzione di pratiche innovative e creative a favore dello sviluppo organico culturale, sociale ed economico; III. Sfruttare le innovazioni nelle “nuove tecnologie” come occasione di pensiero creativo e critico”.

Nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione

(2012) si parla esplicitamente di “immaginazione” nella parte relativa alla scuola dell’infanzia (che dovrebbe essere la culla dell’immaginazione che, invece, è frenata in alcuni contesti “docentecentrici”) e successivamente si usa il verbo “immaginare” nella parte relativa alla disciplina “Tecnologia”. Altrove si parla di “fantasia”, “creatività”, “progettualità”, “ricerca”, tutte che afferiscono all’immaginazione.

Nella parte dedicata alla disciplina “Arte e immagine” è eloquente il brano: “La familiarità con immagini di qualità ed opere d’arte sensibilizza e potenzia nell’alunno le capacità creative, estetiche ed espressive, rafforza la preparazione culturale e contribuisce ad educarlo a una cittadinanza attiva e responsabile. In questo modo l’alunno si educa alla salvaguardia, e alla conservazione del patrimonio artistico e ambientale a partire dal territorio di appartenenza. La familiarità con i linguaggi artistici, di tutte le arti, che sono universali, permette di sviluppare relazioni interculturali basate sulla comunicazione, la conoscenza e il confronto tra culture diverse”. L’immaginazione è apertura al diverso, al nuovo, ad altro.

Lo stesso brano è richiamato nelle Indicazioni Nazionali e Nuovi scenari del 2018 (a cura del Comitato scientifico per le Indicazioni nazionali della scuola dell’Infanzia e del primo ciclo di istruzione) in cui si parla di “Arti per la cittadinanza” e di “competenze metacognitive”, entrambe riferibili all’immaginazione che porta sicuramente a “nuovi scenari”. 

Rilevante che il verbo “immaginare” sia stato usato quattro volte nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo

Sostenibile (Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 settembre 2015) nel paragrafo “La nostra visione” (termine che evoca già l’immaginazione) e precisamente nell’affermazione “immaginiamo un mondo” (per due volte si parla di “mondo libero”, come libero è il mondo dell’immaginazione). Il punto più esplicativo è il seguente: “Il mondo che immaginiamo è un mondo dove vige il rispetto universale per i diritti dell’uomo e della sua dignità, per lo stato di diritto, per la giustizia, l’uguaglianza e la non-discriminazione; dove si rispettano la razza, l’etnia e la diversità culturale e dove vi sono pari opportunità per la totale realizzazione delle capacità umane e per la prosperità comune. Un mondo che investe nelle nuove generazioni e in cui ogni bambino può crescere lontano da violenza e sfruttamento. Un mondo in cui ogni donna e ogni ragazza può godere di una totale uguaglianza di genere e in cui tutte le barriere all’emancipazione (legali, sociali ed economiche) vengano abbattute. Un mondo giusto, equo, tollerante, aperto e socialmente inclusivo che soddisfi anche i bisogni dei più vulnerabili”.

Indicativo anche l’enunciato n. 51: “Bambini e giovani uomini e donne sono agenti critici del cambiamento e troveranno nei nuovi obiettivi una piattaforma per incanalare le loro infinite potenzialità per l’attivismo verso la creazione di un mondo migliore”. E l’immaginazione consente di incanalare le loro infinite potenzialità per l’attivismo verso la creazione di un mondo migliore consentendo a bambini e giovani uomini e donne di essere agenti critici del cambiamento.

Altre argomentazioni a favore del diritto all’immaginazione si rinvengono in atti non normativi come nel “Manifesto dei diritti naturali dei bambini” (19 febbraio 2003) elaborato dal compianto maestro Gianfranco Zavalloni e nel “Decalogo per proteggere i nostri bambini” (19 novembre 2018) stilato dallo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai.

Zavalloni scriveva al n. 1 sul “diritto all’ozio”: “Siamo in un momento della storia umana in cui tutto è programmato, curriculato, informatizzato. I bambini hanno praticamente la settimana programmata dalle loro famiglie o dalla scuola. Non c’è spazio per l’imprevisto. Non c’è, da parte dei bambini e delle bambine, la possibilità di qualcosa di autogestito, di giocare da soli. C’è bisogno di un tempo in cui i bambini siano soli”.

Pellai, nel suo decalogo al n. 3 sul “diritto al tempo libero”, ha scritto “un tempo cioè non già tutto occupato da attività, addestramenti, apprendimenti sempre gestiti da un adulto che dice che cosa si deve fare e che cosa si deve imparare. Ai bambini servono ampi spazi di vita “vuoti e destrutturati” da riempire con la propria creatività e da nutrire con ciò che un tempo era uno dei principali motori dell’infanzia, ovvero la fantasia”.

Si possono ricavare spunti a supporto del diritto all’immaginazione anche dalle Competenze chiave per l’apprendimento permanente (cosiddette competenze europee, Raccomandazione del Consiglio europeo del 22 maggio 2018), in particolare la competenza imprenditoriale: “La Competenza imprenditoriale si riferisce alla capacità di agire sulla base di idee e opportunità e di trasformarle in valori per gli altri”. E l’immaginazione è fucina di idee e opportunità che possono trasformarsi in valori per gli altri.

Nelle Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza (a cura dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, AICS, 2021) si parla espressamente di immaginazione: “AZIONE 2: Creare ambienti in grado di stimolare lo sviluppo di competenze di base propedeutiche per poter leggere, scrivere e fare di conto, dell’immaginazione e della creatività”.

Nel Decreto Ministeriale 22 novembre 2021 n. 334 di adozione delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei, nella Parte III, “La centralità dei bambini”, si legge: “I bambini manifestano un’intensa attività fantastica connessa alla rappresentazione del mondo, dei propri desideri e sentimenti: occorre dare ampio spazio all’immaginazione, al possibile, al pensiero divergente, lasciando anche il tempo per l’ozio, generatore di idee creative. Stanno costruendo una propria identità intrecciando e sperimentando rapporti col mondo interiore, fisico e sociale, perciò vanno accolti nei loro tentativi di esprimere la propria individualità, i propri desideri e bisogni, di relazionarsi con chi li circonda. Il gioco è il loro modo fondamentale di espressione, scoperta, conoscenza ed elaborazione delle esperienze, apprendimento”. Queste parole potrebbero essere un nuovo manifesto dell’immaginazione e dei servizi educativi per l’infanzia del futuro.

3.  Prospettive del diritto all’immaginazione

Il fisico gesuita Paolo Beltrame scrive: “Ma il caos non è puro disordine, e gli scienziati lo sanno, lo percepiscono. Lontani dal vivere lo scoramento, essi piuttosto percepiscono la confusione come una sfida per continuare il cammino verso l’ignoto che li chiama, consapevoli che qualcosa nel cuore delle cose si ostina a sfuggire alla nostra comprensione, ma che il nodo essenziale da sciogliere è la nostra crisi d’immaginazione. Abbiamo bisogno di un nuovo impulso per dare vita a una nuova grande narrazione e insieme a una sottile «nuova fisica», con cui poter dipingere una nuova immagine del mondo a partire dalle rovine di storie vecchie e rigide, e scienze onnicomprensive, per connetterci con la realtà. Una realtà spaventosa solo a prima vista; inquietante solo per chi teme la complessità di ciò che esiste, una rete di sistemi interconnessi che rivelano fenomeni nuovi e imprevedibili. Un modo immaginifico e favoloso…” (nel saggio “Gatti e abbracci. Una fisica favolosa”, marzo 2022).

Bisogna ricordare che l’immaginazione è all’origine di varie scienze e scoperte scientifiche, dalla fisica alle invenzioni e disegni leonardiani (lo scafandro, le pinne, il paracadute, …, ossia il superamento dei limiti umani per raggiungere gli abissi e gli astri).

Il fisico Beltrame aggiunge: “È bello scoprire come il premio Nobel per la fisica 2021, l’italiano Giorgio Parisi, oltre a danzare coraggiosamente nella complessità delle formulazioni matematiche, sappia anche immergersi con ottimismo nella profondità fanciullesca di fiabe da lui stesso scritte. Queste storie per «bambini» si concludono con frasi come: «Per tutto il giorno rimasero a mangiare, giocare e a divertirsi», o : «Regalarono un bel mazzo di narcisi alla ragazza», e: «Da quel giorno in poi il re non disse mai più voglio, e fu sempre gentile con tutti». Una fisica coraggiosa, da fiaba e colma di speranza…”.

“Chiunque abbia a che fare con i bambini e abbia la voglia e la capacità di ascoltarli e osservarli senza giudizio, è consapevole di godere del privilegio di assistere alla creazione quotidiana di mondi ineffabili, dove tutto è chiaro e tuttavia fluido: una foglia non è una foglia, ma una nave che galleggia nel mare in tempesta, una nuvola non è solo un evento atmosferico, ma un elefante che corre nella savana e una montagna non è solo un’altura dal profilo articolato, ma un dinosauro che proprio in quel momento si è addormentato. […] I bambini hanno bisogno di queste isole di tempo, di spazio gratuito per crescere” (Cosetta Zanotti, autrice di testi dell’infanzia, in un webinar del 2610-2022).

Alla luce dei summenzionati riferimenti si può arguire che i bambini hanno un preciso diritto all’immaginazione e che tutti si devono sentire responsabili affinché non resti solo uno dei tanti “diritti sottili” dei bambini, affermati teoricamente ma vanificati praticamente (perché non è prevista una sanzione in caso di violazione).

Perché, parafrasando la famosa citazione “La bellezza salverà il mondo” (da Fëdor Dostoevskij), o dandole una nuova veste, si può dire che l’immaginazione salverà il mondo.

 

“[…] Immaginate che non ci siano proprietà

Mi domando se si possa

Nessuna necessità di cupidigia o brama

Una fratellanza di uomini

Immaginate tutta la gente

Condividere tutto il mondo

Si potrebbe dire che io sia un sognatore

Ma io non sono l’unico

Spero che un giorno vi unirete a noi Ed il mondo sarà come un’unica entità”.

Dalla canzone “Imagine” di John Lennon (1971)

 

 

L’educazione secondo alcuni esperti di oggi

 

 

 

 

Lo psicoanalista Carl Gustav Jung scriveva: “Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi” (da “L’integrazione della personalità”). I bambini non sono da cambiare ma da allevare (“levare a, verso”) - uno dei verbi usati nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dal Preambolo -, che è più difficile di cambiare. I bambini sono innanzitutto da educare e l’educazione è una relazione in cui ci si avvolge e coinvolge, così avviene il reciproco cambiamento tra educatore e educando, cambiamento che è la vita stessa e quello che essa pone e richiede.

Nel 1959, in “Per una filosofia dell’educazione”, il filosofo francese Jacques Maritain metteva in guardia da sette errori dell’educazione contemporanea, tra cui il sociologismo, ovvero identificare l’educazione con le attese della società e propugnava, tra l’altro, l’arte che rimane comunque una forma di conoscenza pratica e ha una funzione educativa: quella di appassionare ai valori mediante la bellezza che essi esercitano sullo spirito. Quel binomio arte e cultura di cui i bambini hanno bisogno e diritto per crescere come persone e come cittadini della loro vita, come espresso nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (pubblicata a Bologna nel 2011).

Il pedagogista Marco Dallari precisa: “Portare il bello e il vero in educazione non significa insegnare ciò che è bello e ciò che è vero, ma fornire strumenti per la co-costruzione di esempi e repertori di verità e bellezza, scoprendo come spesso le due idee convivano o addirittura coincidano. Significa allenare e valorizzare la curiosità per la conoscenza e la sensibilità emozionale”. Nell’art. 3 della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura si legge: “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze”. I bambini sono già portatori del bello e del vero della vita: bisogna dare loro strumenti, mezzi, opportunità affinché li custodiscano, li esprimano, li condividano.

Secondo il saggista Goffredo Fofi: “Non si può essere educatore, e per estensione adulto, se non si è anche ottimisti. Con la volontà. È una sfida antica, questa […] e che in ogni generazione si ripete, ma oggi, credo, con più urgenza che mai”. L’educazione stessa è ottimismo (che non significa faciloneria) e non può essere diversamente, come si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare laddove si parla di “spirito” nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d.

Allo “spirito” si riferisce pure Carlo Mario Fedeli, storico della pedagogia e dell’educazione: “Dall’intelligenza e dallo spirito con cui i problemi dell’educazione si affrontano dipende il futuro degli uomini e delle donne”. Perché educare è dare futuro, progettare il futuro, preparare al futuro, mentre arrendersi, mollare dinanzi ai problemi dell’educazione è privare bambini e ragazzi di possibilità e scelte e abbandonarli nel limbo del limitato presente e di un’apparente libertà.

“Il sogno [sull’educazione] crede, oggi più che mai, che un’educazione di qualità per tutti possa fare la differenza nella vita delle persone e trasformare il mondo, preparando un futuro di speranza e un’umanità nuova, capace di abitare con più sobrietà e solidarietà la nostra casa comune. Un’educazione così non potrà che generare una scuola-laboratorio che con la sua didattica interattiva prova a tradurre in pratica questi grandi orizzonti, mettendo davvero al centro la persona e la sua avventura nel mondo” (Vitangelo Carlo Maria Denora, gesuita esperto di educazione e formazione). La qualità dell’educazione (variamente denominata) è menzionata in tutte le fonti normative internazionali, tra cui il Pilastro europeo dei diritti sociali del 17 novembre 2017 il cui Principio I recita: “Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”. “La consapevolezza negli adulti della dignità del minore e il riconoscimento dei suoi bisogni e diritti costituisce una possibilità di crescita anche per gli adulti stessi, che possono così trovare nel minore un interlocutore, un portatore di entusiasmo, meraviglia e coraggio. Il saper rendere il bambino e l’adolescente responsabili della propria crescita umana sarà quindi il miglior successo di ogni attività educativa” (esperti vari in “Diritti per l’educazione. Contesti e orientamenti pedagogici”, 2020). L’educazione comporta fatica ma, al tempo stesso, è una relazione tra educatore e educando, per cui condividendo la fatica si ottengono risultati migliori. L’educazione è come una cordata in cui l’educatore è il capocordata che infonde fiducia a chi lo segue e insieme potranno gioire sulla vetta della montagna per la vista di cui solo lassù si può godere.  “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società e allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), ovvero farlo ascendere, a maggior ragione se con disabilità o altro problema (cui si è soliti mettere le etichette).

Nell’educazione secondo l’educatore catalano Jordi Mateu, promotore della cosiddetta “educazione viva”: “Ci sono tre bisogni fondamentali: sentirsi protetti, sentirsi connessi e riconosciuti, e sentire di avere abbastanza autonomia per mostrare i propri desideri interiori, la propria curiosità. Se non mi sento al sicuro con te, se non mi guardi con affetto o non mi consideri valido, perdo la voglia di imparare”. L’educatore (genitore o insegnante) deve essere meno autoreferenziale ed essere come un direttore d’orchestra: conoscere ogni singolo musicista, valorizzare ogni strumento (dal primo violino al triangolo), avere occhi per tutti e ciascuno, osservare ogni singolo movimento e ascoltare ogni vibrazione d’animo. La sintonia con gli educandi rende la relazione educativa una sinfonia.  Don Antonio Mazzi afferma: “L’educazione va succhiata col latte”. Come è fondamentale il latte materno che, tra l’altro, rafforza il sistema immunitario del bambino così è essenziale l’educazione genitoriale per rinforzare il sistema immunitario per la vita (basti vedere quanto accade nei casi di ineducazione). L’educazione in famiglia è e rimane il pilastro, le altre figure educative sono mattoni che si aggiungono.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati spiega: “L’educazione non è un braccio di ferro […]. Un insulto del padre o della madre è come un laser, lascia segni, cicatrici, invece gli insulti dei figli non lasciano nessun segno” (nella lectio magistralis del 15/02/2020 a Matera). L’educazione è la dimensione relazionale della famiglia ed è basata sul rispetto dei genitori e dei figli e tra genitori e figli e, purtroppo, la perdita o l’incertezza di questa dimensione ha determinato uno smarrimento educativo generalizzato.

“[...] curare le relazioni. Se si sono rovinate, per trascuratezza, noia, fretta, è il momento di riparare, come facciamo con tutte le cose a cui teniamo di più. Le persone si riparano, non si buttano via” (lo scrittore Alessandro D’Avenia). “I prerequisiti per la salute sono la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità” (dalla Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo, 1997). Ogni persona nasce da una relazione, cresce in relazione, è fatta di relazioni. L’educazione è una delle relazioni prioritarie per cui è superfluo parlare di educazione relazionale o altrimenti aggettivata.

Ciò che è col cuore arriva prima al cuore e rimane per sempre nel cuore. I bambini hanno bisogno di autenticità. “Per noi che ci occupiamo di educazione credo sia importante alimentare la dimensione dell’essere, più che del fare e del possedere, dell’avere. E nel momento in cui noi alimentiamo la dimensione dell’essere, del cuore, della presenza, allora possiamo nutrire le nostre relazioni in maniera autentica perché ciascuno porta quello che è, quello che può, nel modo in cui può e fino a dove può e noi siamo disponibili ad accogliere questo. E allora questo genera sicurezza, perché genera questa possibilità di esserci con l’altro per quello che possiamo con molta apertura, nutrendoci l’uno dell’altro in quello che ciascuno può donare all’interno della relazione. In maniera veramente autentica, con tutta la vulnerabilità, la fragilità e la nostra dimensione dell’errore, dell’inciampo, del limite, del difetto e quant’altro. Proprio perché a quel punto io ti aspetto, aspetto te per quello che sei, indipendentemente dal risultato e dal prodotto di cui sei portatore, perché non è questo che interessa. È un po’ come traslare tutto il nostro tema del prodotto versus processo (da “Le aspettative nella relazione educativa” delle formatrici Silvia Iaccarino e Simona Vigoni).

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “I casi di bambini a cui vengono diagnosticati disturbi neuropsichiatrici sono in aumento esponenziale. E se invece di aumentare le certificazioni, sostenessimo maggiormente genitori e insegnanti nelle loro funzioni educative?”. L’educazione è dare sostegno ma ha anche bisogno di sostegno, è una forma di solidarietà generazionale e intergenerazionale (art. 2 Cost.).

Per esempio nelle politiche antidroga non si parla di perquisizioni o controlli, ma piuttosto di dialogo, informazione e approccio educativo. Infatti, l’educazione ha una forte funzione di prevenzione e recupero e consente la cura e la protezione necessarie a bambini e ragazzi (art. 3 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) se caratterizzata e cadenzata da esempio, emozioni, entusiasmo, empatia, esercizio, energia. L’educazione è condivisione e preparazione. Educare comporta trasmettere regole e limiti per il rispetto di sé e degli altri, ma non deve significare né castrare né incastrare, bensì cesellare e incastonare il gioiello della vita (anche se, poi, le cose possono andare diversamente). Molti genitori si fanno assorbire dai figli quando sono piccoli e si fanno asservire da loro quando sono cresciuti. L’educazione non è edulcorazione, emulazione, ma edificazione della vita, edizione di quella singola vita.

Genitori (e altri educatori) dovrebbero essere, nella vita dei bambini, “trasparenti” e “leggeri” come libellule: passare nella vita dei bambini ma senza fare danni. Bambini: bisogna continuare a sperare per loro, con loro, come loro. Possa crescere la loro speranza e possano crescere sempre più nella speranza!

 

 

Famiglia, culla d’amore

 

 

Sintesi: Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli

Abstract: L’articolo scava nel profondo delle dinamiche familiari per evidenziare come l’amore gratuito sia il motore della crescita e del benessere dei suoi componenti

 

“Non credo che ci si debba amare solo per fare i figli. […] Dico solo che una società che considera i figli come seconda o terza priorità, che ne fa sempre meno e non li educa nel giusto modo, non ha futuro. Privilegiare la comodità, l’egoismo, avanzare come giustificazione il costo, i rischi e la rottura di scatole rispetto alla poesia, alla tenerezza, alla faticosa dolcezza di una di una maternità e di una paternità pazienti e presenti, non è segno di maturità e coscienza adulta. […] Ho solo una tristezza immensa che mi coglie, fino a portarmi alla domanda pericolosa: se l’amore sia sempre più straniero in questa nostra società preoccupata dalla recessione, ma sempre meno impegnata ad affrontare e a risolvere la vera recessione, ovvero quella riguardante la famiglia, l’amore, i figli, l’altruismo e la capacità di relazioni profonde e autentiche”. Così don Antonio Mazzi, cresciuto senza padre e divenuto “padre” di tante generazioni con problemi di tossicodipendenza o di altra natura. Parecchi ragazzi caduti nella tossicodipendenza o altra forma di dipendenza affermano che dai genitori hanno avuto tutto, anche il superfluo, ma non quello di cui avevano bisogno, come l’ascolto, l’attenzione, il tempo, anche qualche limite. Ciò che dovrebbe caratterizzare l’amore genitoriale, l’amore in famiglia. Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli. “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du BICE, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino suscita amore e stupore (anche se non sempre è così, altrimenti non si spiegherebbero i casi di infanticidio), come quello che manifestano i genitori i figli con disabilità: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te” (la scrittrice Ada D’Adamo nei confronti della figlia disabile).

“[...] in una famiglia, l’arrivo di una sofferenza può avere l’effetto di una bomba a mano. Di solito gli uomini entrano in una sofferenza che unisce il dolore per l’altro perduto all’incapacità di accettare di non essere il centro esclusivo delle cose. Per una donna il dolore è sempre una sfida da accettare, qualcosa da cui è impensabile fuggire” (cit.). Se l’uomo e la donna si unissero nel provare il dolore, o almeno lo convogliassero, sarebbe l’estrema, o forse la più sublime, forma d’amore: anche questa è una forma di assistenza, innanzitutto morale (art. 143 comma 2 cod. civ.).

Lo scrittore francese Pierre-Marc-Gaston de Lévis: “Il segno che non si ama più lo si ha quando i sacrifici cominciano a costare; il segno che si ama poco lo si ha quando ci si accorge di farne”. Quando in una coppia o in famiglia si parla in termini di sacrifici e rinunce significa che non si è compreso il senso e il linguaggio dell’amore. Quello che si fa è una scelta nella libertà e responsabilità: questo è l’amore.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Si deve al grande etologo austriaco del secolo scorso Konrad Lorenz la scoperta dell’imprinting, termine inglese che sta a indicare una forma di apprendimento precoce che fa sì che l’animale poche ore dopo la nascita riceva una sorta di impronta dal primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo. Ne resta «impressionato» e non può fare a meno di seguirlo, corteggiarlo e restargli legato, assumendo tutti i suoi comportamenti. Lorenz addirittura si era immerso in un lago e aveva fatto in modo che allo schiudersi delle uova gli anatroccoli vedessero per prima cosa la sua massiccia figura. Così era stato e i piccoli avevano continuato ad andargli dietro, al punto che una volta che il ricercatore introdusse nel lago la vera madre biologica, si rifiutarono di seguirla. Questo tipo di apprendimento segue, però, regole ben precise e può verificarsi soltanto in quelli che sono definiti «periodi sensibili» che spesso si consumano nell’arco di pochissimi giorni”. I primi giorni di vita e soprattutto alcuni momenti sono fondamentali perché i bambini hanno bisogno di cure che sono l’espressione massima dell’amore gratuito. Esplicativo in tal senso l’art. 4 della Carta dei diritti del bambino nato prematuro (2010): “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. L’amore è un bisogno umano, un’esigenza vitale per ciascuno, ancor di più per i bambini, per i neonati. Nelle fonti normative si è parlato di “bisogno di amore” per la prima volta nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), oggi se ne parla diffusamente (anche in “carte” e documenti vari stilati da psicologi e altri esperti) tanto che si può profilare un diritto d’amore (il giurista Stefano Rodotà).

L’art. 8 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. Si noti che in quest’articolo si usa il verbo “conservare”, con tutta la pregnanza che può avere, e la successione dei diritti si conclude con “relazioni familiari”, che ha una portata più vasta e profonda di “famiglia”. Inoltre, quest’articolo è da leggere alla luce di quelli precedenti e in particolare dell’art. 3 ove si enuncia, tra l’altro, l’interesse superiore del fanciullo. Così nel procedere all’affidamento o all’adozione di un bambino. La psicologa Rosa Rosnati: “Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza [cosiddetto “caso di Bibbiano”] hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tutt’altro che leggera” (in un’intervista del 17 luglio 2019). Ogni figlio in famiglia dovrebbe essere considerato in “affido leggero”.

“A vederla luccicare tra le colline sulla stradina di campagna, la giardinetta rossa piena zeppa di bambini – bambine nella fattispecie – sembrava venir fuori da una di quelle scene di famigliole felici che, appena possono, i pubblicitari infilano nei loro filmati. Eppure, nella macchina mancava la mamma […]” (lo scrittore Gaetano Cappelli). Esistono molte famiglie monogenitoriali anche in presenza di entrambi i genitori, a danno dei figli, nel presente e per il futuro: coniugi separati in casa; genitore cui non si fa o che non sa esercitare la propria distinta funzione genitoriale; omologazione o duplicazione della figura genitoriale (con eclissi del padre) e altro ancora (sempre attuale sui figli alla mercé delle scelte dei genitori il film drammatico “I bambini ci guardano”). 

Il sociologo Pietro Boffi sottolinea: “Non si tratta di essere più o meno catastrofisti, ma di guardare in faccia la realtà. E domandarsi: una società in cui le famiglie che l’Istat tecnicamente definisce “unipersonali”, e che qualcuno già chiama “famiglie single”, sono ormai un terzo del totale e – se le tendenze che abbiamo delineato non subiranno un deciso cambio di rotta – sembrano destinate a diventare la maggioranza, può ancora stare in piedi? La frammentazione della popolazione che emerge dai dati sarà in grado di reggere il tessuto economico, sociale, civico che finora – bene o male – ha retto il nostro Paese?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia non può essere definita unipersonale o single perché viene meno la sua essenza (o funzione) come le è riconosciuta dalla Costituzione (artt. 29-31), dagli atti internazionali e dalle scienze umane in generale.

Il saggista Goffredo Fofi evidenzia: “E quanti oggi soffrono davvero di questo sentimento di inadempimento, di non essere all’altezza, di non fare tutto quel che si dovrebbe fare per combattere i mali del mondo, per attenuarne la forza? La società odierna mira a tutt’altro, mira a deresponsabilizzare, ad accentrare il senso di colpa sul privato famigliare e sessuale, a eliminare quell’altro, che è certamente di ostacolo al dominio dei pochissimi sui tantissimi. Viva dunque i sensi di colpa, viva la paura del rimprovero, se collocati al posto giusto nei nostri sentimenti, e richiamo alle nostre responsabilità”. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia vi è un richiamo alla responsabilità sin dal Preambolo: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. Deresponsabilizzarsi e fare a scaricabarile tra i due genitori, tra famiglia e scuola, tra i vari ordini di scuola e così via è un’appropriazione indebita della vita dei bambini e degli altri.

Un sociologo americano: “Le nuove idee hanno bisogno di antichi luoghi”. Le nuove vite hanno bisogno di antichi luoghi: le famiglie.

Lo psicologo Simone Olianti conclude: “Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici”. Essere fecondi non è concepire figli ma generare amore, quello sano e sanante.

 

 

La scuola nel postdigitale

 

 

La scuola di una volta, anche con i suoi errori e limiti, era sicuramente diversa e più scuola, senza corse né corsi né ricorsi né troppi discorsi. Era riconosciuta come scuola e non svolgeva altre funzioni. E la scuola di oggi com’è o com’è considerata?

Una delle ragioni per cui la scuola di oggi non funziona più come tale è perché si ritrova a colmare, calmare, calmierare le ansie, le lacune, i sensi di colpa, le richieste (o le pretese), i ricorsi ai T.A.R. dei genitori. I genitori devono ricordare (o sapere, se non ne sono ancora consapevoli) che i figli escono come figli da casa e vi fanno ritorno come figli e nel frattempo sono alunni (parola che, etimologicamente, deriva da una radice con il significato di “nutrire, far crescere”) e devono essere alunni a scuola. Tra famiglia e scuola non c’è e non ci deve essere separazione ma distinzione: i genitori danno la vita, la scuola dà la cultura e insieme danno la cultura della e per la vita.

“[…] sarà essenziale promuovere l’idea di «educazione della comunità», dove la scuola è un soggetto – il soggetto principale – all’interno di una rete di attori protagonisti: le famiglie, il mondo culturale, sportivo, economico, ecclesiale e sociale. All’interno di questa comunità si può costruire un progetto educativo capace di ridurre le disuguaglianze e di promuovere la mobilità sociale” (cit.). La scuola può fare tanto ma non tutto, perché ha bisogno di coerenza, coralità, collaborazione educativa con la famiglia nell’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).

“La scuola è stata ridotta ad una sorta di Grande Fratello: registro elettronico, pubblicazione di foto sui siti delle scuole, richiesta di videocamere di sorveglianza…(il docente Alfio Briguglia nel convegno “L’educazione attraverso i saperi” il 1° marzo 2019 a Matera). Per ri-dare senso e consenso alla scuola bisognerebbe riscoprire il significato etimologico di “scuola”, cioè “tempo libero” e “studio”, cioè “aspirare a qualcosa”.

A proposito di parole, il termine stesso “parola” deriva da “parabola” e la scuola deve ritrovare anche il suo ruolo di parabola di vita. Il formatore Franco Lorenzoni sottolinea: “Nella scuola ci sono poi troppe volte le parole vuote, le parole non credute, le parole senza corpo, senza energia. Quelle che sovente ci accontentiamo di usare noi docenti, e che gli studenti fanno fatica ad ascoltare. Parole che non comunicano e non generano nulla perché non suscitano inquietudine, non mettono in movimento e in discussione, non inducono a porci domande e a dubitare, e dunque non producono scintille e non fanno scaturire nuove idee. […] È dunque il tempo di compiere nella scuola un grande lavoro di ecologia della parola. Nel senso etimologico: trovare casa alle parole, offrire casa alle parole. La casa delle parole è insieme un luogo e una tensione: il luogo è il corpo di chi le pronuncia tutto intero, sempre bisognoso di attenzione, la tensione è lo sforzo di avvicinarci agli oggetti della conoscenza. In qualche modo mi verrebbe da dire che autentica è la parola che non si accontenta, la parola che ricerca. Molto meno la parola che chiude il discorso, che afferma definitivamente”. Urge un’“ecologia della parola”, soprattutto a scuola dove incalzano acronimi, anglicismi e altri gerghi. Nella scuola sempre più aziendalizzata si usano sempre più espressioni inglesi per indicare attività che si sono sempre svolte o obiettivi che si sono sempre perseguiti ma con nomi diversi, come il coding (pensiero computazionale) e il coaching (allenamento), variamente denominato. La scuola non deve e non può adeguarsi. Adeguandosi al mondo circostante la scuola è passata dall’essere “bottega della cultura” all’essere, purtroppo, assimilabile a un discount o centro commerciale o sito di vendita online (basti vedere quanto si fa durante gli open day per orientare le iscrizioni scolastiche).

Nella scuola deve tornare la pedagogia in modo da essere un laboratorio pedagogico dell’immaginario. “L’espressione «immaginario educativo» sta a indicare la prospettiva umanistica e personalistica dell’educazione, interessando in primo luogo le aree della scuola, della pedagogia e della formazione. Da qui il bisogno di sognare un futuro migliore per le nuove generazioni, valorizzando la capacità dell’uomo di reagire di fronte all’imprevedibilità del destino, scommettendo sulla possibilità che l’immaginario educativo trovi un nuovo punto di equilibrio centrato sulla resilienza, evitando sia le fughe in avanti nei sogni utopici sganciati dalla realtà, sia le nostalgie retrotopiche che si perdono nel passato, sia infine le previsioni apocalittiche e catastrofiche della distopia. […] «Educare» (da e-ducere, «tirar fuori») vuol dire infatti liberare la persona, e quindi l’educazione non potrà mai fare a meno dell’immaginazione, capace di spalancare orizzonti inediti” (gli esperti Antonella Fucecchi, studiosa di didattica interculturale, e Antonio Nanni, pedagogista, in “Immaginario e resilienza. La scuola dopo il virus”, 2021). Educare è dire e dare futuro e anche per questo è difficile. È quanto espresso altresì nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare nella lettera a: “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”.

Secondo la formatrice Jessica Omizzolo la scuola deve essere “[…] una scuola che si prende cura dell’eterogeneità e la coltiva. […] una scuola attiva che promuove autonomie, che sostiene il senso di autoefficacia. […] una scuola attenta. Una scuola che NON: non incasella, non chiude, non dà risposte preconfezionate e non addestra all’ubbidienza, alla performance. […] una scuola in ascolto delle domande, che condivide dialoghi, che si pone in osservazione dei silenzi, che offre rilanci divergenti e sostenenti. […] una scuola dove adulti e bambini possano sentirsi a proprio agio nel loro essere unici. Adulti professionisti aperti, attenti, sensibili”. È triste sentire parlare e assistere che nella scuola si spinga per la visibilità e pubblicità di quello che si fa o si deve fare correndo e competendo tra insegnanti tanto affannati e poco affiatati. E la centralità del bambino? E i diritti dei bambini? E i loro bisogni e i loro tempi? E l’ascolto? La scuola è sempre più adultocentrata o egocentrata e la pandemia ha spesso fornito un alibi per renderla ancora più “a distanza”, “online” e non vicina e in linea con i soggetti principali della vita, i bambini e i ragazzi.

“[…] c’è anche una mentalità su cui lavorare perché il sistema di istruzione riacquisti credibilità e rispetto: la scuola aperta a tutti è una comunità educante nella quale i bambini, gli adolescenti e i giovani sono i protagonisti” (cit.). Bambini e ragazzi non devono essere (o non solo) ricettori ma ricercatori del sapere, di ogni forma del sapere. La scuola non è solo imparare ma stare bene insieme per imparare.

Anche il pedagogista Daniele Novara afferma: “A scuola ci vuole la capacità di creare tra gli alunni modalità di relazione tali da consentire alla classe di vivere assieme e costruire le conoscenze necessarie”. Per insegnare, come pure per la genitorialità, bisogna avere le basi come in una casa e non improvvisarsi muratori o arrivare in un appartamento già finito.

La qualità della scuola non dipende dalle riforme, dalle innovazioni tecnologiche, dalla normativa, ma da chi vi opera e da chi la vive e la rende viva. L’insegnante non deve convincere ma coinvolgere, non solo trasmettere le sue conoscenze ma far trapelare le sue emozioni, essere motivato e motivante, appassionato e appassionante, emozionare ed empatizzare…

L’insegnante deve essere curioso e suscitare curiosità. Insegnare è incuriosire, innovare, indurre, iniziare, incontrare, includere… tutt’altro che indottrinare. Non si dimentichi che la scuola è una delle fucine di salute, come si ricava dal paragrafo “Sviluppare le abilità personali” della Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986).

Già l’antropologa statunitense Margaret Mead sosteneva che “bisogna insegnare ai bambini a pensare, non a cosa pensare”. Nell’art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. Bisogna interrogarsi se, in particolare nella scuola basata su progetti, metodi brevettati, uso di device e altro ancora, si educhi bambini e ragazzi a pensare o piuttosto all’obbedienza. I bambini hanno semplicemente bisogno di pensare ed essere pensati: questo è il pensiero puerocentrico.

Occorrerebbero maestri come Mario Lodi. Maestro di libertà, come don Lorenzo Milani (di cui aveva le stesse iniziali invertite), è considerato ancora un maestro straordinario, “il maestro che ogni bimbo vorrebbe”, ma era semplicemente maestro dell’ordinario, come ancora la scuola non è. Mario Lodi era per la gentilezza, la mitezza, la fiducia nei bambini, che non è qualcosa che scatta subito ma si costruisce e perdura, era contro la frettolosità e per il dare tempo ai bambini. L’educazione, la relazione educativa (prima in famiglia e poi a scuola) dovrebbe essere questo. 

Lo psicologo statunitense Howard Gardner, nel libro “Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo”, ha scritto che bisogna educare al bello, buono e vero: questa è la corresponsabilità della famiglia e della scuola, della famiglia con la scuola e non solo dell’una o dell’altra.