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L’amore, dalla letteratura al codice civile

Sintesi: In una coppia non conta la gemellarità ma la reciprocità

Abstract: Il contributo propone una lettura degli articoli del codice civile sulla relazione coniugale partendo da alcuni spunti letterari

“L’anima gemella è il sogno di tutti, anche se nessuno sa cosa veramente significhi vivere con un’anima uguale alla propria. Le storie più belle di anime gemelle, che si incontrano in genere in letteratura, hanno avuto breve durata e una fine drammatica: così almeno è stato per Paolo e Francesca, per Tristano e Isotta, per Romeo e Giulietta… L’incontro di due anime gemelle rischia di rendere la coppia “sterile”, perché l’uno basterebbe all’altra e viceversa, col risultato che entrambi cadrebbero nell’inevitabile chiusura al mondo e nell’impossibilità di perseguire fini evolutivi” (lo psichiatra Luigi Baldaschini). In una coppia non conta la gemellarità ma la reciprocità, come si evince dalla disciplina dei diritti e doveri reciproci dei coniugi contenuta nell’art. 143 cod. civ..

Nella letteratura, dai tempi di Dante ai giorni nostri, si trovano parole più piacevoli o romantiche per descrivere gli obblighi reciproci tra coniugi, in particolare quelli enunciati in modo prosaico nell’art. 143 comma 2 cod. civ., che non sono limiti alla libertà individuale e coniugale ma i pilastri del progetto di vita coniugale, il cui presupposto è la consapevolezza che la realizzazione di qualsiasi progetto comporta tempo e fatica. Significative le parole dello scrittore Bruno Ferrero “Una persona che ti sia fedele più di quanto lo è per la propria sicurezza. Una persona che abbracci la bellezza del sacrificio, l’abbandono della forza e il pericolo della vulnerabilità. In altre parole, una persona che vuole trascorrere la sua vita solo per crescere in quest’amore folle e pericoloso con te, e con te solo” (da “Il segreto per un matrimonio felice”).

Ancora B. Ferrero: “L’attenzione chiara, semplice, autentica all’altro è amore allo stato puro. Ed è il dono più prezioso che possiamo fare a un’altra persona”. L’attenzione è uno dei contenuti dell’assistenza morale e materiale tra coniugi di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ..

“Tutto ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente” (il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein). Alla base dei quattro fondamentali doveri coniugali ex art. 143 comma 2 cod. civ. vi è la comunicazione, etimologicamente “insieme una prestazione, un onere, un peso”.

Incisiva la precisazione dello scrittore Alessandro D’Avenia: “La parola passione indica il trasporto verso qualcosa o qualcuno e, al tempo stesso, la capacità di soffrire per quel qualcosa o qualcuno. […] Chi non ha passioni perde il senso della vita, perché non si misura mai con l’amore e finisce con l’annoiarsi. Passione non coincide con piacere, ma con amore: se non siamo disposti a impegnarci e patire per qualcosa o qualcuno, non l’amiamo”. Molte coppie falliscono e molti amori finiscono perché non si dà lo stesso significato a passione e non si ha lo stesso senso delle passioni.

L’amore tra un uomo e una donna non può essere esclusivo o occlusivo altrimenti diventa asfissiante, arrancante sino all’essere agonizzante, ma deve essere inclusivo in modo tale che ci sia un passaggio del testimone nella staffetta della vita. L’amore non è qualcosa di astratto, che va e viene, è sentirsi legati (obblighi), reciprocità, assistenza, quello che giuridicamente (etimologicamente il diritto congiunge) è disciplinato per i coniugi nell’art. 143 cod. civ..

Anche Rainer Maria Rilke: “[…] l’amore che consiste in questo: che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra” (da “Lettere a un giovane poeta”): così l’assistenza morale e materiale tra coniugi, di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ.. Si trascura l’amicizia coniugale dimenticando quella che può sembrare una tautologia: amore nell’amicizia, amicizia nell’amore. Colui o colei che si ha accanto nella vita non è accompagnatore o accompagnatrice, ma compagno o compagna di vita. Quando si fa un viaggio insieme non lo si fa solo per usare lo stesso mezzo di trasporto (per motivi di opportunità o convenienza reciproca per economizzare le spese), ma perché si condividono la gioia e la fatica di farlo, il motivo per cui lo si fa, la meta da raggiungere, il condividere quello che diventerà un ricordo comune e quindi comunicazione. Questo anche il senso di quel “contribuire” di cui all’art. 143 comma 3 cod. civ..

In un altro testo si legge di Rilke: “L’essenza dell’amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l’altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il massimo che gli consentono le forze”. Così l’amore di coppia, ancor di più l’amore genitoriale: non desiderare l’altro per sé ma desiderare per l’altro il meglio di sé.

“[…] nulla e nessuno ci può risarcire di ciò che abbiamo perduto, neppure coloro che sono colpevoli di quelle perdite, né quelli che direttamente o meno ne sono stati l’origine o la causa, e alla fine, quando tutti i calcoli sono stati fatti e abbiamo chiaro chi ha tolto cosa e a chi e perché, […] l’unica cosa che conta è questo: che ci possiamo ancora abbracciare, senza sprecare più nemmeno per un istante la straordinaria fortuna di essere ancora vivi” (da “Eva dorme” di Francesca Melandri). Assistenza morale e materiale tra coniugi (art. 143 comma 2 cod. civ.): superare rancori e rinfacci pensando a quello che è ancora vivo e si può alimentare (biofilia) e non a ciò che è perduto e può appesantire il cammino come una zavorra (necrofilia).

“Il tatto è l’ultimo dei sensi ai quali sto attento. Eppure è il più diffuso, non sta in un organo solo come gli altri quattro, ma sparso in tutto il corpo. Mi guardai la mano, piccola e tozza e pure un poco ruvida. Chissà cosa avrà sentito nella sua. Non potevo chiedere, poteva essere per sbaglio una domanda d’amore” (Erri De Luca in “I pesci non chiudono gli occhi”). Tatto e contatto è la prima forma di assistenza morale e materiale (art. 143 comma 2 cod. civ.) alla base dell’intesa sessuale di una coppia.

Il filosofo Adriano Fabris precisa: “Ci sono parole che dicono aspetti importanti della nostra vita – esperienze, incontri, emozioni – di cui rischiamo di fraintendere o, peggio, di perdere il significato. Una di queste è la parola «amore». L’amore, oggi, è confuso soprattutto con il desiderio e con il suo appagamento. Si parla di eros, di erotismo. Niente di male, ben inteso. Il desiderio è una tensione caratteristica dell’essere umano, che lo indirizza verso obiettivi importanti. Lo diceva già il filosofo Platone, cercando anche di porre rimedio a ciò che del desiderio risulta comunque un difetto: il fatto che esso non mette ordine tra i suoi obiettivi, e dunque richiede di essere guidato”. Il legislatore ha fornito una guida per l’amore coniugale (compreso il desiderio sessuale) negli artt. 143 e 144 cod. civ. e per l’amore genitoriale nell’art. 147 cod. civ..

Peculiare è la formulazione dell’art. 144 che dà la “misura” dell’amore e che è una disposizione sempre attuale. Si usa il verbo “concordare”, che è differente dallo scendere a compromessi come si usa dire, l’espressione “esigenze” e non bisogni e si dispone di tener conto delle esigenze di entrambi e di quelle preminenti della famiglia stessa, per cui bisogna cercare continuamente un equilibrio. Tutto ciò si può tradurre in “cura”.

Amare non è mettere l’altro su un piedistallo o su un trono o in una nicchia e porsi e porre tutto ai suoi piedi. Questo è idolatrare l’altro e isolarsi dagli altri, incistarsi e inaridirsi. L’amore non è (non può e non deve essere) asfissia, altrimenti diventa agenesia. L’amore è acquisire un nuovo sguardo e non diventare ciechi, altrimenti si rischia di finire in un vicolo cieco. L’amore non può essere cieco, altrimenti si prende una cantonata e, quando si rinsavisce, non si riesce a trovare una via d’uscita nemmeno per una semplice crisi e si ricorre così sempre più spesso a un terzo (dal consulente di coppia all’avvocato).

Al filosofo Robert Pogue Harrison (nel libro “Giardini. Riflessioni sulla condizione umana”, 2008), piace rappresentare che i giardini sono luoghi che rallentano il tempo. Le crescite vi hanno ritmi lenti: quello della maturazione dei frutti, della crescita degli alberi. Il giardino, sostiene così, con la sua temporalità lunga, le promesse e i giuramenti di cui vivono gli amanti. Tempo e intemperie e altra simbologia del giardino, quello di cui devono tener conto la coppia sin dall’inizio e in itinere; tempo e impegno espressi nell’obbligo reciproco di collaborazione, introdotto nell’art. 143 cod. civ. dalla riforma di diritto di famiglia.

Amare qualcuno non significa ammantare sotto una fitta coltre i suoi limiti e lacune, ma significa filtrarli, decodificarli e mediarli affinché l’altra persona vi si possa specchiare e gli altri vi si possano avvicinare senza creare incistamenti e barricate. Etimologicamente “coppia” significa essere legati, congiunti, ma non incollati o abbarbicati, perché sono due entità della stessa specie messe insieme, non a caso nel codice civile il legislatore non parla di “coppia” ma di “coniugi” per richiamare lo stato giuridico. Quando necessario bisogna perciò distaccarsi per prendere respiro e

vivere la propria identità individuale che non si esaurisce in quella di coppia. Anche in tal modo si dà contenuto all’obbligo di assistenza morale materiale ai sensi dell’art. 143 comma 2 cod. civ.. La coppia non deve essere legata da un cappio ma attingere dalla stessa fonte dell’amore senza bere dalla stessa coppa dell’amore (come già scriveva Gibran in “Il Profeta”).

“L’amore […] si perfeziona col desiderio di invecchiare insieme per consumarsi in quell’Amore che non avrà mai fine” (cit.). Coppie che durano, che restano nel tempo e che presentano e rappresentano non l’amore perfetto, ma semplicemente l’amore. 

Il dovere di educare

Abstract: L’articolo ricorda agli adulti la responsabilità di educare, scavandone il senso e le implicazioni anche alla luce della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e del pensiero di alcuni esperti.

“[…] a noi adulti non è chiesto di rincorrere gli aggiornamenti che la tecnologia impone al calendario, ma di essere punti di riferimento credibili e solidi, in un ambiente vitale che diventa sempre più fluido… offrirci come paletti di attracco… «Generazione digitale», per noi, si è trasformato in un «generare al digitale»” (l’esperto di tecnologia Marco Sanavio e la psicologa Luce Maria Busetto, “Generazioni digitali. Consigli per genitori e formatori”, 2017). Essere genitori e educare ha sempre comportato difficoltà anche perché vi è differenza intergenerazionale, perché richiede il continuo equilibrio tra se stessi e i figli, tra il mondo familiare e quello circostante. Nell’art. 27 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a proposito dei genitori, vi è la locuzione “nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie”: essere genitori comporta misurare le proprie possibilità e misurarsi con le proprie possibilità senza abdicare, senza strafare, senza nemmeno giustificarsi o giustificare dicendo “così fan tutti”. Essere genitori è innanzitutto esserci, perché i figli hanno bisogno di soggetti e non oggetti.

Educare: la fatica di preparare alla fatica del vivere. E preparare è prevenire. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco” (dalla poesia “Considero valore” di Erri De Luca). Considerare valore l’altro in cui potersi specchiare e da cui poter imparare: educare è allevare (“levar su”) e non abituare. Non si abitua (o si asseconda) un bambino in un certo modo convinti che, pian piano, si abituerà successivamente ad altro e all’altro: educare è, sin dalla nascita, indirizzarlo verso quella che è la vita e la vita è con gli altri, come emerge pure dalle locuzioni usate nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Educare comporta pure il rimproverare (etimologicamente “riprovare”) e il richiamare (letteralmente “chiamare di nuovo, chiamare per far tornare indietro”), che non è incutere terrore ma timore, far conoscere il senso del limite e far riconoscere i limiti.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: “Bambini e ragazzi sono spinti a trasgredire, a superare i limiti, fa parte della loro natura di curiosi della vita, ma non c’è nulla di peggio del non

potere capire dove sono questi limiti e, quindi, dove inizia la trasgressione. E questo avviene quando si cresce in presenza di adulti ondivaghi, propensi a dire «sì» o «ni», pur di evitare il confronto con i «no». Troppi adulti sono impauriti dai loro figli e li trattano con un eccesso di aggressività, attirandosi il loro odio, o li blandiscono concedendo loro tutto, non sapendo che i ragazzi in fondo disprezzano chi non ha coraggio e si arrende o scappa troppo facilmente. Il buon esempio non fa miracoli, ma è il meglio che possiamo offrire ai nostri figli per aiutarli a non cedere al fascino della vita facile tutta centrata sul proprio tornaconto personale”. I genitori non si possono limitare ad essere “incubatori di vita”, ma devono necessariamente educare per essere “promotori di vita”. Dolcezza e fermezza dovrebbero caratterizzare ogni relazione educativa. “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio” (art. 30 comma 1 Costituzione).

Un principio cardine dell’educazione è il rispetto. Jean Piaget scriveva: “Si ha rispetto reciproco quando gli individui si attribuiscono reciprocamente un valore personale equivalente e non si limitano a valorizzare questa o quella azione particolare” (in “Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia”). Educare al rispetto e educare nel rispetto, come si ricava pure dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. E il rispetto richiama il concetto di sguardo.

Per educare e arrivare ai giovani bisogna innanzitutto rivolgere loro lo sguardo, il cosiddetto sguardo educativo, caratterizzato da intenzionalità e intensità (ricordando che lo sguardo si perde all’orizzonte, per cui non si riuscirà a seguire un giovane quando si allontanerà per prendere la sua strada, ma questo non significa perderlo ma solo perderlo di vista). Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sottolinea: “Chi guarda, impara che non conta la velocità o la frenesia dei fatti, ma la conversione alla lentezza dei movimenti, delle occhiate, del respiro, dei battiti cardiaci, del pensiero”.

“Spesso arriviamo a considerare degne di amore le persone, perché vediamo altre persone che le amano: i bambini arrivano ad amare il loro fratelli e sorelle, perché li vedono alla luce dell’amore dei genitori. Le guardie carcerarie guardano i prigionieri in modo differente dopo averli visti con coloro che li amano. Non si tratta di essere gentili, guardando il mondo con gli occhiali rosa. Si tratta di vedere le cose come sono, sinceramente” (cit.). Educare lo sguardo, allo sguardo, per guardare altro e oltre, per vedere l’altro e nell’altro, per scorgere il meglio, nuovi orizzonti, il futuro. “[…] allevarlo [il fanciullo] nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La giornalista Giovanna Abbagnara richiama: “Imparare ad abitare il mondo digitale rientra in quella educazione ai nuovi media tanto necessaria per la crescita dei nostri figli. La comunicazione

oggi a differenza di ieri non è affatto diminuita per colpa del web. Anzi è cresciuta. La iper-connessione permette di continuare a parlare anche dopo il lavoro, la scuola, durante le attività pomeridiane, durante lo studio. Ma proprio per questa è rischiosa perché non essendoci spazi di silenzio e di riflessione personale finisce per essere povera di contenuti, poco approfondita, una comunicazione fatto per lo più di “mi piace” e “non mi piace”. Dovremmo insegnare ai nostri figli a pensare, a trasmettere valori, ragioni di senso. E questo è possibile solo se, come diceva madre Teresa di Calcutta: “l’esempio vale più di mille parole”. A patto di alzare lo sguardo dal display”. I genitori si devono occupare e preoccupare di salvaguardare la vista dei figli e di educare il loro sguardo.

Lo scrittore Alessandro D’Avenia, parlando di sé, afferma: “Ancora adesso, a 40 anni, mi sorprende il modo in cui i miei genitori mi dimostrano che per loro sono importante. Questo mi dà una forza che nessuno può togliermi”. I genitori devono far sentire “importanti” i figli. Etimologicamente “importante” significa qualcuno o qualcosa che “riesce a portarsi dentro”, riesce a penetrare, a toccare la sfera interiore, l’ambito intimo: i figli hanno bisogno di questo e non di essere considerati “unici”, “perfetti”, o tutti omologati “amore e tesoro”. Non bisogna dimenticare che ci sono anche i figli degli altri. In tal modo si dà il giusto e necessario ai figli affinché acquisiscano la forza di andare avanti e autonomamente. Dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti del’Infanzia si ricava che si deve educare il bambino al rispetto (dal verbo latino “respicere”, “guardare di nuovo, dietro”) di sé e dell’altro.

“Educare alla diversità oggi non è più solo una sfida, è diventato un atto di responsabilità. Fare esperienza dell’incontro con chi è diverso da noi è alimentare una cultura di pace” (il giornalista Claudio Imprudente). La diversità è un’università da cui imparare. “[…] preparare il fanciullo […] in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza” (dall’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Etimologicamente “tollerare” significa “portare, sollevare, sostenere”, ed è quello cui bisogna educare: portare i pesi della vita, portarli reciprocamente, perché si è tutti uguali, affinché si sia tutti uguali.

“[…] oggi il bambino continua a essere sottovalutato, non riconosciuto, poco stimato nei suoi valori e nelle sue potenzialità. Continua a essere considerato un «non ancora», un essere in fieri, in preparazione, che, grazie alla famiglia, all’educazione e alla scuola, diventerà un futuro cittadino. Il fatto di considerare il bambino come futuro cittadino è funzionale, perché permette agli adulti di porsi davanti a lui quali modelli per il suo futuro o come genitori o come insegnanti. Eppure questa è una proposta fortemente conservatrice, perché presenta come modello per il domani l’oggi che siamo noi, che in realtà è il nostro ieri” (lo storico gesuita Giancarlo Pani in “I diritti dell’infanzia”, giugno 2019). Educare non è modellare, ma modulare,

moderare, modificare. Educare è “plasmare” (con accezione positiva): “salare” (dare sale), “spalare” (perché è faticare), “salpare” (perché bisogna andare verso nuovi e condivisi orizzonti), “amare”. È questo il senso dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Alla fine del film di formazione “L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza”, il bambino protagonista si ripete perplesso l’appellativo “esiliato” che gli è stato attribuito e continua: “Quando ti dicono che tuo padre arriverà più tardi e, poi, tarda tarda tarda significa che non verrà più!”. Bisogna fare molta attenzione alle spiegazioni che si danno e alle bugie che si dicono ai bambini pensando di evitare loro una sofferenza maggiore. Non si deve edulcorare la verità o il dolore ma educare alla verità e al dolore.

Il filosofo Roberto Mancini spiega: “Il dolore “portato” mi apre gli occhi. Mi fa vedere quello degli altri e mi accompagna nell’ascolto della loro voce. Rivelatività del dolore. […] Come risveglio di una sensibilità universale. Accesso a quella compassione per cui nel mio dolore e in quello di chi amo sento all’improvviso il dolore di tutti gli esseri”. Educare l’empatia, educare all’empatia: un bisogno emozionale, una necessità esistenziale.

Dalla parola “educare” si ricavano due parole significative “care” e “dare”. Per educare bisogna innanzitutto entrare in relazione e far cogliere quanto siano care le persone e, poi, dare un obiettivo cui volgere lo sguardo, dare l’esempio da osservare, dare regole condivise e coerenti da seguire. È quanto si ricava anche dal combinato disposto dell’art. 5 e dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

L’art. 5 della Convenzione è uno dei più emblematici, soprattutto per l’uso delle espressioni quali “comunità”, “orientamento” e “consigli” che riguardano proprio l’educazione. Educare non è facile ma farlo insieme, tra soggetti educativi e tra educatori e educandi, è un grande obiettivo e risultato.

Educare: adoperarsi, esplicare, iniziare, osservare l’unicità del bambino e l’universalità dei valori dell’umanità. “Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce ti diano gioia, le quattro stagioni ti diano gioia, ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo!” (da “Prima di tutto l’uomo” dello scrittore polacco Nazim Hikmet): educare all’uomo, educare all’umanità.

Educare (e, poi, insegnare) è tessere, costruire, spargere, sciogliere (verbi da considerare anche nel loro significato etimologico) con slancio, con sapienza, con allegria, con gioia, con trasporto, con amore. “Il lavoro è amore rivelato” (da “Il Profeta” di Kahlil Gibran) e così è il lavoro educativo ed in particolare quello genitoriale.

Educare (e insegnare): lasciare un’orma, dare forma.

Premesse e promesse del matrimonio

Abstract: Il contributo ispeziona dall’interno la genesi delle unioni matrimoniali cercando di evidenziare le più diffuse ragioni del loro fallimento o della loro riuscita

L’ingegno umano nel procurare e procurarsi sofferenze nel matrimonio: sposarsi tra sconosciuti o, poi, diventare sconosciuti sino a odiarsi e farsi guerra più dei peggiori nemici.

Si è passati dai matrimoni combinati dalle famiglie ai matrimoni scombinanti le famiglie. Il matrimonio non è solo un fatto personale; basti pensare ai costi di ogni tipo, da quelli per i preparativi a quelli relazionali cagionati da matrimoni sbagliati (per esempio uomini che vedono di nascosto o non incontrano più le rispettive madri, perché avversate o detestate dalle mogli) a quelli sociali di separazioni e divorzi. Il matrimonio è un progetto alla base della propria vita con riverberi in quelli altrui (figli, parenti, affini e altri). Molti, però, lo affrontano senza impegno anche a causa del pessimo esempio degli adulti della generazione precedente che hanno contratto e vissuto matrimoni senza amore, senza accordo, senza dialogo.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini precisa: “Sposarsi non è fare un contratto di mutuo soccorso, ma consentire a un desiderio, giocarsi in un salto, narrare da capo, assieme la storia di una passione mai banale, mai del tutto privata, fatta di escursioni avventurose, ritiri solitari, dolori rimossi, amori sopiti, impreviste speranze. L’autunno degli affetti custodisce i colori del fuoco solare, la brezza timida dell’amicizia, la fecondità nascosta della neve”. Sposarsi non è stabilire un accordo ma una concordia, come l’indirizzo concordato della vita familiare di cui si parla nell’art. 144 cod. civ.. Il matrimonio è comunione spirituale e materiale tra i coniugi, comunione di cui, però, si parla solo in negativo nell’art. 1 legge 1° dicembre 1970 n. 898, cosiddetta legge sul divorzio. Matrimonio e figli non sono sogni della propria vita da inseguire e dileguare alle prime difficoltà come una capanna al vento, ma progetti di vita da costruire superando le difficoltà come nell’innalzamento di un palazzo.

“L’amore vero è il cammino in due verso la luce di un ideale comune” (cit.). Il futuro di una coppia è un muro da “cominciare” (“iniziare con, insieme”) e da “costruire” (“ammassare con, insieme”): insieme. Contrarre matrimonio non è cristallizzare la coppia, ma impegnarsi per consolidare la coppia (e non concepire un figlio per consolidare la coppia o cominciare una vita insieme solo perché si è concepito un figlio).

“L’amore è un laccio, un laccio che può strozzare” (lo scrittore Domenico Starnone). L’amore è appartenersi, non possedersi o appropriarsi della vita altrui. Nel rito del matrimonio concordatario non si dice più “Prendo te”, ma “Accolgo te”.

“La tristezza che gli si legge in faccia mentre mette giù […] fa pensare a una pena di cuore che l’abbia spinto a levarsi da un accaldato banchetto e a prendere aria nel bosco. O addirittura a disertare la festa delle proprie nozze, a farsi uccel di bosco il giorno stesso del proprio matrimonio” (Italo Calvino in “Il castello dei destini incrociati”, 1973). Quanti matrimoni cominciano già con premesse o promesse sbagliate. Sposarsi non deve essere né un atto dovuto né temuto: convolare a nozze deve essere “con-volere” le nozze. Non ci si sposa perché si sta insieme da tempo o perché uno dei due (o qualcun altro) se lo aspetta. Ci si deve sposare in piena conoscenza e coscienza, a cominciare su come si intende l’amore. Il matrimonio non è un traguardo (cui giungere per forza e purché si arrivi) ma un orizzonte verso cui guardare e andare insieme di giorno in giorno. Anche così si contribuisce alla vera educazione sentimentale e sessuale dei figli e delle nuove generazioni.

“Se c’è un errore che molte coppie fanno è quello di pensare che l’amore sia soprattutto spontaneità, mentre invece, come ogni esperienza umana, anche l’amore va vissuto con l’intelligenza, la volontà e la responsabilità. Ad amare si impara” (il teologo Giampaolo Dianin in “Matrimonio, sessualità, fecondità”, 2006). L’amore coniugale non è un mero sentimento (che ora si sente e, poi, si può scoprire che non si sente più) o uno stadio ma un progetto, qualcosa che si fa (come nell’espressione “fare l’amore”). Il codice civile fornisce le direttive giuridiche negli artt. 143, 144 e 147 cod. civ..

“Comprendere: ‘cum prendere’, cioè prendere qualcosa e diventare uniti con essa. Se ci limitiamo a esaminare una persona dall’esterno senza diventare una con lei, senza metterci nei suoi panni, entrare nella sua pelle, non arriveremo mai a comprenderla” (il vietnamita Thich Nhat Hanh). Così il consenso necessario per il matrimonio, così il coniugio successivo alla contrazione del matrimonio, così la comprensione di cui circondare i figli.

“Quando accadono cose importanti, anche cose che fanno soffrire, non è sfortuna: è la tua vita e devi solo trovare il modo per continuare, al meglio. E per quanto riguarda la solitudine non lasciarti spaventare dalla parola” (lo scrittore Fulvio Ervas). È questo l’atteggiamento che deve spingere ogni scelta importante della vita, dal matrimonio a separazione/divorzio, con la consapevolezza che non ci si sposa (o non ci si unisce a un’altra persona) solo per timore della propria solitudine né si continua a starci insieme per timore di affrontare una nuova sofferenza.

“Il vero segreto di un matrimonio felice è sapere di vivere con un rospo che non diventerà mai principe” (cit.). Il primo segreto di ogni relazione (da quella amicale a quella matrimoniale) è la reciproca accettazione senza alcuna simulazione. Non si comincia una relazione sentimentale o ci si sposa per cambiare l’altro, ma è l’amore che lo fa vedere nel modo migliore. L’amore è un fatto e un atto, pertanto qualcosa che si fa e diviene. Quando questo non c’è mai stato o finisce non ci si riconosce più e si va in crisi.

“Una promessa è una promessa. Dare la propria parola è impegnare la propria dignità di persona umana” (lo scrittore Bruno Ferrero). Ogni giorno è fare e mantenere una promessa: è investire la propria dignità e rivestire l’altro di dignità. Così dovrebbe essere nella vita coniugale. Matrimonio:

andare verso l’altare e scambiarsi promesse dinanzi all’altare. “Altare”, dal verbo latino “alere”, “nutrire, mantenere, far crescere”: perché nel matrimonio ci si nutre e si cresce nel reciproco amore. Anche questo è il senso dell’art. 143 cod. civ., letto durante il matrimonio concordatario e civile, ma non ascoltato né coltivato.

“Si crede che un matrimonio salti per i grandi argomenti? No! Ci sono quelle quotidianità, quelle inezie, quelle piccole irritanti abitudini, che sgretolano la gradevolezza della vita, quelle manipolazioni femminili, quegli individualismi maschili, quelle cose dette male, quei ritardi ingiustificati, quell’epsilon di disagio, di scomodità che l’altro è. Sempre. Poi arrivano i grandi argomenti, quando non vengono più approcciati con stima reciproca, perché l’altro è pesante, è noioso, perché tornare a casa è entrare in una cosa spiacevole. Si tira la corda e ci si dà il diritto di fare le nevrasteniche o i superficiali, e non ci si rende conto di quanto lo si fa e quanto sia molesto” (don Fabio Rosini). In una coppia una certa differenza d’età, una differenza di provenienza, di bagaglio culturale ed esperienziale inizialmente può essere elemento di attrazione e di scambio, ma col passar del tempo può comportare che solo uno si avvicini all’altro, che si adegui all’altro, che s’abbassi all’altro che continua a rimanere fermo al suo livello o nel suo limite senza crescere insieme e senza cambiare insieme. E così le differenze diventano diversità e ci si annienta, ci si arena, ci si allontana e si finisce col dire che era così sin dall’inizio e che qualcuno l’aveva pure detto o previsto.

Matrimonio: preparativi, festa di addio al celibato e al nubilato, inviti, vestiti, “wedding planner” (organizzatore di matrimoni), bomboniere, confetti, tulle… E, poi, cammin facendo basta un brutto momento per vanificare ogni altro bel momento. E anche quelli presenti a fare gli auguri, il più delle volte, si dileguano nei momenti duri e non danno una mano a superare i momenti scuri. Il matrimonio non è un sogno infantile da realizzare, ma una realtà da adulti in età e in amore. Non è una passeggiata, ma una scalata in cordata, per cui se cade l’uno cade anche l’altro. Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, sottolineano: “Troppo spesso tendiamo a dimenticare che il compagno o la compagna della nostra vita non sono chiamati a renderci felici”. Nella coppia non c’è chi dà e chi riceve, ma la peculiarità è la reciprocità (art. 143 cod. civ.), come nell’abbraccio in cui non si distingue chi ha aperto per primo le braccia e chi mantiene di più l’altro.

Un esempio di vita per la coppia e per la famiglia: il (la) pulcinella di mare. Uccello piccolo e buffo, con un becco singolare, piumaggio colorato intorno agli occhi, capacità di nuotare e di fare voli oceanici, capacità di adattamento ambientale, inchino iniziale e coccole durante il corteggiamento, monogamia, compiti condivisi nella coppia, piccoli resi prontamente autonomi, rispetto per i vicini e tanto altro.

Ci vorrebbero tanti “pulcinella di mare” nelle famiglie di oggi. 

Oltre l’educazione ambientale

 

Di recente uno degli anglicismi più usati, soprattutto dopo l’avvento dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, è “green education”, ovvero educazione ambientale e allo sviluppo sostenibile. C’è da chiedersi, però, se i veri destinatari siano bambini e ragazzi e, poi, come e a cosa educarli.

 

Mentre i bambini occidentali devono essere educati alla raccolta differenziata dei rifiuti e al riciclo, in alcuni posti i bambini africani (e non solo africani) vivono in mezzo ai rifiuti, cercano quanto necessario per la sopravvivenza in mezzo ai rifiuti, in taluni casi trasportati là dai paesi industrializzati (come gli ammassi di abiti usati). In entrambi i casi, però, ai bambini sono stati deturpati l’infanzia e l’ambiente circostante.

 

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro scrive: “L’essere umano non nasce né buono né cattivo, né educato né maleducato. La cattiva abitudine si sviluppa quando l’ambiente in cui egli si trova non lo abitua a tener conto degli altri. […] Nessun genitore può pretendere dal figlio ciò che egli stesso non insegna né esplicita. […] A Tripoli c’è un detto: “Se la città è sporca tu comincia a pulire davanti alla tua porta”. Così dobbiamo fare anche noi: seguire una linea, andare contro corrente. Genitori, insegnanti, educatori. In un patto d’acciaio famiglia-scuola. Perché a quest’ultima non è affidata solo la trasmissione del sapere, ma anche della civiltà e del rispetto reciproco. […] Bisogna essere ostinati contro l’abuso e l’accumulo di indifferenza”. Educazione ambientale: educazione all’ambiente, educazione dall’ambiente, di ogni ambiente.

 

Anche la scrittrice Susanna Tamaro afferma: “I bambini e le persone giovani hanno bisogno di avere degli ideali, hanno bisogno di qualcosa in cui credere e per cui valga la pena vivere. La nostra società, in questo senso, è stata drammaticamente carente, perché ha considerato le giovani generazioni soltanto come una categoria di consumatori”. Bisogna rivolgersi direttamente ai giovani, avvolgerli con parole incoraggianti e coinvolgerli in progetti concreti, coerenti e congruenti (e non meramente progetti scolastici).

Solo un’incessante crescita interiore fa affrontare ogni cosa esteriore. L’educazione deve partire dal “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”, per, poi, arrivare, in un circolo virtuoso, ad “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale” (dall’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Non si ha bisogno solamente di educazione ambientale ma anche di ogni ambiente educante. Non a caso la parola “ambiente” è una delle più ripetute nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, dal Preambolo all’art. 39: dalla famiglia “quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere e la crescita di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli” ad “un ambiente che favorisca la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo” per il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di bambini vittime di qualsiasi maltrattamento o violenza.

 

Essere adulti è essere responsabili e, quindi, un po’ tutti genitori delle vite più giovani, come si legge nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (che può essere considerato un testo della nuova pedagogia, da quella ecologica a quella interculturale): “Ci impegneremo ad assicurare ai bambini e ai giovani un ambiente stimolante per la piena realizzazione dei loro diritti e la messa in pratica delle loro capacità, aiutando i nostri paesi a beneficiare del dividendo demografico attraverso scuole sicure, comunità coese e le famiglie” (dal punto n. 25 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile).

 

I bambini non vanno riempiti ma, piuttosto, svuotati. I genitori (e gli altri educatori) dovrebbero essere come gli operatori ecologici: rimuovere quello che non va e contribuire al rispetto della natura dei bambini svolgendo una funzione sociale che è quella della tutela dell’infanzia tutta.

 

I bambini, soprattutto nella scuola dell’infanzia, devono essere “architetti” dell’ambiente circostante (come gli “uccelli tessitori”) per imparare ad esserlo della propria vita. Giocando si imparano i principi di vita: per esempio in maniera ludica il bambino esercita il suo diritto di sporcarsi ma, al tempo, stesso, gli si può dare scopetta o spugnetta e invitare a pulire (anche in gruppo) così acquisisce il dovere di pulire e rispettare l’ambiente (come si fa nelle scuole giapponesi).

 

Oltre che di “green education” si parla insistentemente di “outdoor education” o di “outdoor learning. “Cosa è l’Outdoor Learning? È didattica attiva, agita ed esperienziale, spesso basata su scoperta condivisa, dinamicità, gioco. È momento inclusivo di apprendimento, porta bambine, bambini, ragazzi e ragazze a ritrovare un rapporto con l’ambiente naturale, che diviene aula aperta in cui apprendere discipline curricolari, sperimentare situazioni interdisciplinari, allenare competenze socio-emotive, agire l’apprendimento e vivere esperienze formative complete. Moltissime sono le scuole che relegano la vita outdoor a semplice spazio del break o come luogo di attività didattiche occasionali” (cit.). “Outdoor” significa letteralmente all’aperto, fuori dalla porta: in senso lato la scuola deve fare uscire dagli schemi, dai preconcetti, dai pregiudizi. Già dalla Costituzione è chiamata ad aprirsi, “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.), ma purtroppo continua ad essere chiusa o a chiudersi in burocrazia e altre formalità o in raffigurazioni negative dell’immaginario collettivo. Di educazione all’aperto ne avevano già parlato pedagogisti e esperti del passato, anzi la scuola nel suo senso etimologico di “tempo libero, occupazione piacevole” è nata con la scuola peripatetica di Aristotele. L’educazione all’aperto favorirebbe la stessa educazione ambientale perché consentirebbe ai bambini, per esempio, l’osservazione del comportamento degli insetti, dall’organizzazione sociale delle formiche all’attività di riciclo degli scarabei stercorari.

 

I bambini (i figli) non sono il nostro futuro, ma il loro futuro, anzi sono il presente immanente e incandescente della vita e delle singole vite che nessuno dovrebbe ignorare, rovinare o spegnere, “considerando che l’infanzia di un individuo e le caratteristiche particolari dell’ambiente familiare e sociale ne determinano in buona parte la successiva vita da adulto” (dal Preambolo della Carta europea dei diritti del fanciullo”, Risoluzione A3-0172/92). Quel futuro che era stato già oggetto della Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 27 luglio 2012 A/RES/66/288, intitolata “Il futuro che vogliamo” (documento non vincolante).

[…] un compito si è reso ancora più urgente: mostrare la bellezza del deposito ricevuto, capace di dare risposta alle domande disattese di molti giovani” (lo studioso gesuita Giovanni Cucci). Oltre a una transizione ecologica o ecosociale, urge una transizione etica. Si tenga conto della locuzione aggiunta all’art. 9 della Costituzione: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. È anche una forma di adempimento del dovere inderogabile di solidarietà intergenerazionale (art. 2 Cost.).

 

Si rispetterebbero (di più) l’ambiente e le biodiversità se ci si rendesse conto che tanto l’ambiente (“ciò che sta intorno”) quanto le biodiversità sono l’umanità stessa.

 

Il diritto all’ambiente può essere considerato “umano” anche alla luce della formulazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tra cui l’incipit dell’art. 29 par. 1: “Ognuno ha doveri nei confronti della comunità”.

Animaletti / Farfalle e insetti / Bambini e bandiere / Passeri in terra / Barche nel mare / Gabbiani nel cielo” (da “Bambini e bandiere” dell’artista gesuita Giovanni Poggeschi): la geografia del regno dell’infanzia come dovrebbe essere in ogni ambiente, soprattutto in famiglia e a scuola.

 

A tale proposito, incisive le parole dello psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro: “La natura protegge i piccoli dalla conoscenza della dura legge della nostra finitudine – nulla dura per sempre – che potrebbe togliere loro la voglia di vivere. Bambini e bambine, se la miseria e la violenza della guerra o dell’ambiente familiare non glielo impediscono, vengono al mondo esplorandolo attraverso il gioco e grazie alla sicurezza offerta dall’ambiente familiare – materno nel senso più ampio del termine – che li accoglie, sicuri che tutto ciò che li circonda è vivente e immortale” (in “Il senno di prima. Reimparare la vita dai bambini, una risorsa impensabile”).

 

 



Genitorialità: genialità e/o agilità

Abstract: L’articolo invita il lettore a interrogarsi sul senso e sul come si è genitori, anche attraverso essenziali indicazioni di carattere psicopedagogico

“Vicino a noi c’è sempre qualche mamma che ha bisogno di essere ascoltata e incoraggiata. Se facciamo bene la nostra parte quella mamma, quel papà diventeranno capaci di generare altro bene: una circolarità di cui il mondo ha tanto bisogno” (cit.). Il sostegno alla genitorialità non è fatto solo di sussidi o aiuti materiali ma di assunzione (ovvero adozione, come se si fosse tutti genitori adottivi) di responsabilità da parte di ciascuno, esercizio di adultità, adempimento di quella solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Tra le relazioni di aiuto esistenti oggi c’è quella della consulenza genitoriale per aiutare i genitori. Alla luce dell’aumento di genitori considerati o che si rivelano emotivamente immaturi, incompetenti, inadeguati o altro, sarebbe il caso di farsi comunità (comunità richiamata nell’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) intorno ai genitori per aiutarli nel loro farsi genitori di giorno in giorno. Nell’art. 18 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “fornire un’assistenza adeguata ai genitori o ai tutori legali nell’adempimento delle loro responsabilità.

La genitorialità è come la cittadinanza: non è sufficiente l’iscrizione anagrafica del figlio ma è necessario esercitare diritti e adempiere doveri nei confronti di quel figlio. I genitori sono “cittadini qualificati” che formano nuovi cittadini. Il legislatore del 2013 col d. lgs. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, nel novellare gli artt. 315 e ss. del codice civile, ha sostituito la dicitura “potestà dei genitori” con l’attuale “responsabilità genitoriale” (in linea con la Convenzione e le legislazioni di altri Paesi), anche per richiamare questa funzione sociale dei genitori. Si noti, tra l’altro, la differenza tra la specificazione “dei genitori” e l’aggettivo “genitoriale”, che attiene alla sfera, alla relazione e non ai singoli.

Il pedagogista Daniele Novara spiega: “L’impegno per educare un figlio adottivo è lo stesso necessario per un figlio biologico. Anzi, spesso la consapevolezza pedagogica dei genitori adottivi è maggiore”. La genitorialità non è un’attitudine o istintività che qualcuno sente o pensa di avere ma un’idoneità che si deve manifestare e rivolgere verso il figlio, come si ricava in particolare dall’art. 6 comma 2 della L. 184/1983 novellata dalla L. 149/2001 già dalla rubrica (su cui riflettere) che è diventata “Diritto del minore ad una famiglia”: “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare”. Tutta la disposizione normativa si può riferire ai genitori in generale, in particolare il verbo “intendere” (dal latino “in”, verso, e “tendere”, tendere, volgere, da cui deriva il sostantivo “intenzione” che richiama “attenzione”, che si richiede ai genitori), che sottolinea che i figli non devono essere la realizzazione né di un desiderio né di un diritto. La genitorialità non è un automatismo e c’è differenza tra concepire, generare, (saper) gestire i figli e tutto il resto che comporta. L’amore genitoriale, che dovrebbe essere la forma più gratuita dell’amore, non significa né avere né possedere i figli ma dare vita alla vita e tutto questo è ancora più evidente nell’adozione.

Tautogramma con la T sulla genitorialità: tenacia, talenti dei figli da far esprimere e valorizzare; tolleranza; temperamento (da bilanciare con il temperamento dell’altro e quello dei figli); tempo (da darsi e da dare); tracce (da lasciare come esempio e da delineare come indicazioni di vita); tenerezza; tenere (e non trattenere); tendere (le mani, lo sguardo, le orecchie che equivale ad avere attenzione). “Istruzioni” di genitorialità che si possono evincere anche dall’articolato della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia.

“[…] il primo definibile come ‘valore emotivo del figlio’ che sottolinea come avere un figlio sia un’esperienza emotiva gratificante, piacevole in sé e per i suoi benefici psicologici ed esistenziali; il secondo fattore, ‘valore strumentale del figlio’, sottolinea come il figlio possa rappresentare un valore per i genitori, ad esempio incrementando la loro reputazione sociale, o garantendo nel futuro un supporto emotivo ed economico nei momenti del bisogno” (gli esperti di psicologia sociale Camillo Regalia e Elena Marta, nel Rapporto Cisf 2020). Ogni figlio è un valore perché lo è la vita. Basti pensare agli sforzi costanti e crescenti dei genitori (e anche dei nonni) con figli con disabilità e al loro non riuscire a “concepire” più la loro vita senza quei figli. Perché sono i figli col loro venir al mondo che fanno, formano e fortificano i genitori, la genitorialità. “Genitore” fa rima con cuore, amore, dolore, ardore, sudore, ore... perché è parte di tutto quello che può contenere la genitorialità.

Genitorialità non è solo educare i figli ma anche educarsi ai figli. Per esempio, bisogna sapere che “Le manifestazioni della paura del buio nei più piccoli possono essere diverse. Possono comprendere fantasie e immagini ricorrenti, come ad esempio il pensiero che nel buio ci sia un mostro. Nel bambino si possono presentare inoltre segnali fisici, come il mal di pancia o la sudorazione, ma anche modi di comportarsi insoliti, come ad esempio richieste continue di vicinanza e rassicurazione e momenti di pianto o rabbia. Tutte queste fasi, per quanto possano preoccupare i genitori, sono normali e fanno parte dello sviluppo del bambino, della sua maturazione e dell’acquisizione di sempre maggior autonomia” (un team di esperti).

La genitorialità, fatta di paternità e maternità, è come un fiume, in cui non si distingue tra alveo e corso d’acqua, ma è un flusso che, da una sorgente, tra periodi di piena e di secca, tra anse e ciottoli, va a sfociare nel mare che è la vita del figlio che, prima o poi, se ne va di casa come è naturale che sia.

“Un figlio è di entrambi i genitori e per quanto sia fuori discussione l’importanza fondamentale della mamma, è chiaro anche che il padre non è solo colui che provvede economicamente al sostegno della famiglia, ma una figura fondamentale nella crescita del bambino. Mammo è un modo errato di etichettare un uomo che svolge il suo normale ruolo di padre e dopo anni di proteste e lotte per ottenere la parità di genere, è qualcosa che ci fa tornare indietro di secoli” (dal sito SuperPapà). Genitorialità: non tanto mamma e papà quanto mamma con papà.

Lessicalmente in “materno” e “paterno” cambia solo l’iniziale ed entrambi, foneticamente, evocano “terno” e “quaderno”: perché il padre e la madre formano un terno con il figlio e si iscrivono nello stesso quaderno della genitorialità. La genitorialità ha un profilo paterno e uno materno e si costituisce e costruisce nel tempo nella relazione, possibilmente, tra i due profili e con e per il figlio.

Nell’esercizio della genitorialità occorre anche una misura, come mette in guardia lo psicoanalista Massimo Recalcati: “I padri non devono essere troppo vicini ai figli, non devono fare i figli. Le madri non devono essere madri narcisistiche, madri coccodrillo, madri chioccia” (nella lectio magistralis del 15-02-2020 a Matera). La misura è sempre l’interesse superiore del fanciullo (art. 18 par. 1, riferito ai genitori, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), il “best interest”. È inevitabile che i genitori siano egoisti ma, almeno, cerchino di non essere egocentrati sino a cadere in forme di cosiddetto amore incestuoso in termini psicologici (si ricordi la terribile vicenda di Blanche Monnier, segregata in casa dalla madre e dal fratello per 25 anni per allontanarla dall’uomo amato).

Padre e madre sono parole che differiscono solo per l’iniziale e così dovrebbe essere nella realtà, cioè padre e madre dovrebbero rivelare almeno un elemento differente nell’esercizio della genitorialità, per esempio nell’approccio al figlio.

La genitorialità dovrebbe essere espressione di potenzialità (quelle dei genitori e quelle dei figli), socialità, valorialità, specificità, responsabilità, finalità (la vita). È quanto espresso negli artt. 147 e 315 bis cod. civ. ed è quanto precisa il pedagogista Novara: “La consapevolezza che le capacità dei bambini non sono quelle degli adulti, ma vanno modulate adeguatamente secondo le fasi della vita, permette dunque ai genitori di accettare, di organizzarsi e di aspettare che il bambino raggiunga la capacità che gli compete. Con un atteggiamento sempre costruttivo e pratico, facendo vedere come si fa e progressivamente dando l’autonomia necessaria. Così si cresce, bambini e genitori, assieme”. I genitori devono tener conto dell’età e del grado di maturità dei figli, della loro vita privata, delle loro potenzialità (tutte locuzioni usate nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, artt. 12 e ss.) e modulare la genitorialità di conseguenza. Genitorialità (e famiglia in generale) è esprimere e realizzare il “noi” nel rispetto del proprio io e di quello altrui. Si realizza, si vive e si costruisce in due in relazione con il figlio e con gli altri figli, se vi sono.

La genitorialità non è solo procreazione ma progetto e processo, fatto di progressività, prospettive e problemi, per cui essa non deve seguire né mode né modelli né modus vivendi ma essere piuttosto un modus operandi. 

Tra le varie competenze richieste oggi ai genitori è necessario anche che maturino una sana genitorialità digitale. Il pediatra Giuseppe Di Mauro consiglia: “L’avvicinamento di bambini e ragazzi alle nuove tecnologie è inevitabile e non può e non deve essere ostacolato. Deve piuttosto essere limitato e guidato verso un uso consapevole e attraverso programmi di alta qualità, compito che spetta in primo luogo ai genitori e agli altri adulti di riferimento, come gli insegnanti”. A proposito di “media education” lo psichiatra francese Sergei Tisseron parla delle “3 A”: autoregolazione, alternanza, accompagnamento: autoregolazione significa stabilire limiti e accompagnare i bambini ad acquisire, con gradualità, la capacità di darsi regole e di autocontrollarsi; l’alternanza rimanda all’equilibrio e alla necessità che, nell’infanzia, l’uso del digitale conviva con altre opportunità di esperienza, ricerca e sperimentazione; accompagnamento significa “mai soli!”.

Facendo un gioco di parole, dal vocabolo “genitorialità” si ricava “genialità” e “agilità”, tra le qualità richieste ai genitori nel divenire della quotidianità.

La genitorialità è dialogo, diaframma, diapason di vita, è futurabilità, è dare futuro, creare futuro.

Genitorialità: sorgente e sergente di vita.

“Avere un figlio è avere un sasso nel petto” (cit.). Genitorialità: la forma summa di amore e dolore.