free stats

Dire e dare educazione oggi

 

 

Oggi non regna la maleducazione ma la diseducazione o ineducazione.

«Siamo precipitati in tempi orribili / Il mondo è diventato troppo decadente e malvagio. / La politica è sempre più corrotta / I giovani non rispettano più i loro genitori»: […] traduzione di un’iscrizione caldea del… 3800 a.C. Che fanno ben 5.819 anni fa! Insomma, lo «scontro generazionale» non è un’invenzione di questi nostri tempi depravati, ma fa propriamente parte, da sempre, delle relazioni tra persone di diversa età, e in particolare tra genitori e figli. Ridurre queste dinamiche nostalgicamente a «buoni» (gli adulti, i genitori) e «cattivi» (i giovani, i figli), da una parte coglie certamente un problema, o meglio una fatica che è soprattutto educativa; ma dall’altra ci priva di tutta la ricchezza e la dinamicità della vita. Che evolve più negli scarti anche improvvisi o dolorosi che nella ripetizione assuefatta e meccanica. Dove le radici sono fondamentali, ma l’albero deve crescere e portare nuovi frutti a ogni stagione” (fra Fabio Scarsato, esperto di problematiche giovanili). Attualmente lo scontro generazionale sembra abissale perché da una parte mancano gli adulti e/o dall’altra parte i ragazzi, i giovani tanto in senso fisico quanto in senso metaforico. L’educazione è sempre stata ed è un impegno finalizzato a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è un passaggio dal vecchio al nuovo, è una “traduzione della tradizione”, nel senso che bisogna trasmettere i valori conquistati e trasmessi da altri e i principi della vita alle nuove generazioni in base alle esigenze personali e alle circostanze attuali. Tutto ciò comporta fatica e tempo e, per questo, molti si arrendono.

«Maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me così”»: a scriverlo non è solo don Bosco, ma un ateo, Gilles Deleuze, uno dei più famosi pensatori del XX secolo. Ancora una volta la luce è puntata sugli adulti: genitori ed educatori che, nel loro modo concreto di amare e di lavorare, testimoniano ai figli la verità della vita. Un compito tanto affascinante quanto arduo” (il teologo Angelo Scola). Nell’educazione si è sempre avuto e si ha sempre più bisogno di autenticità, esempio, intelligenza (“leggere dentro”), operosità, umiltà. Ogni educando ha bisogno di amore, emozioni, incontro, orizzonti, univocità.

L’educazione è come un viaggio in cui sono fondamentali conoscenza, comprensione, consapevolezza. È quanto si ricava anche dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui “si parte” dallo sviluppo del fanciullo e “si arriva” al rispetto per l’ambiente naturale.

Il filosofo Silvano Petrosino scrive: “L’essere del vivente è inseparabile dalla forza che, sollecitandolo a uscire da sé, lo apre all’altro: il singolo vivente non può continuare a vivere e persistere per sé se non si apre all’altro, se non si orienta all’altro, se non va verso l’altro. Ciò che si impone come vita e nella vita è dunque la sorprendente e inarrestabile forza della relazione; tutto ciò che vive, proprio per affermarsi e diffondersi come vivente, deve entrare in relazione con l’altro, deve muoversi all’interno di un’infinita trama di mutue relazioni: da questo punto di vista non è scorretto intendere i termini “vita” e “relazione” come veri e propri sinonimi”. Vita e relazione, il binomio che è scopo dell’educazione e che è responsabilità degli adulti e, di certo, col mondo digitale (e con quanto accaduto durante la pandemia da Covid-19) non si tiene conto della sinonimia tra vita e relazione. Sinonimia tra vita e relazione che si ricava altresì dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, sin dal Preambolo.

Secondo alcuni psicologi e altri esperti, alcune locuzioni coniate e usate durante l’emergenza sanitaria da coronavirus sono state inadeguate perché hanno aumentato la negatività nelle e tra le persone e soprattutto nei bambini e nei ragazzi. Per esempio non si sarebbe dovuto parlare di “distanziamento sociale” ma “distanziamento fisico”, non di “didattica a distanza” ma di “didattica della vicinanza” e così di seguito. L’educazione, la formazione, lo sviluppo della personalità, le relazioni, la preparazione al e del futuro passano anche attraverso il linguaggio e la cura delle parole, di ogni singola parola.

Le persone dimenticano ciò che hai detto, ciò che hai fatto ma non dimenticano come li hai fatti sentire” (la poetessa afroamericana Maya Angelou). Educazione (in particolare quella che si dice sentimentale o emotiva, in realtà l’educazione già in sé è tale) è co-involgimento, avvolgimento reciproco, attivare i sensi per suscitare sentimenti (intelligenza emotiva), esprimere e imprimere la vita, ricordando che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri” (dalla Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986). Genitori e insegnanti, perciò, devono preoccuparsi di meno dei mezzi da fornire, del tempo che passa e fagocita ogni cosa, degli obiettivi a lungo termine, ma occuparsi del momento, del qui e ora.

L’educazione è come l’edificazione: bisogna scavare in profondità per dare fondamenta solide alla casa che si deve reggere da sola e accogliere ogni vita; poi si costruiscono i piani superiori, i muri esterni, i divisori e così di seguito. Ciò richiede gradualità, sollevamento di pesi (perché educare è allevare che ha lo stesso significato di sollevare), sofferenza, ovvero “pathos”, in altri termini “passione educativa” e anche compassione da ambo i soggetti, educatore e educando. Perché educazione è dialettica, relazione, emozione, azione e reazione, sorprendersi e comprendersi a vicenda. Indicazioni e indici normativi si possono leggere anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 27 in cui la locuzione “sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale” del par. 1 dà un’idea delle dimensioni coinvolte nel processo educativo.

Il filosofo Martin Buber scriveva: “Ogni persona è in attesa di conferme, rinforzi e risposte che permettono all’uomo di esistere e che possono venirgli soltanto da un altro essere umano”. Educazione: conferme rinforzi e risposte che si scambiano due esseri umani lungo l’impervio cammino della stessa umanità.

Nell’educazione non si deve usare il dito indice per imporre o rimproverare o minacciare additando, ma per attirare a sé il figlio o l’educando. L’educazione deve essere una seduzione oltre che conduzione. In tal modo si esplica il vero e giusto senso dell’autorità genitoriale o adulta, dal latino “auctor”, “colui che accresce, che fa prosperare”.

Il pedagogista Daniele Novara precisa: “La vita infantile è diversa da quella adulta ed è popolata dal pensiero magico e da figure che progressivamente scompaiono. Occorre, quindi, accettare i passaggi con serenità e sicurezza, dando fiducia ai figli e mantenendo sempre un atteggiamento positivo verso di loro”. I bambini chiedono agli adulti poche ed essenziali cose: silenzio, sguardo, semplicità, sincerità, sensibilità. I bambini non hanno bisogno di educazione emozionale e affettiva ma, piuttosto, sono essi stessi gli educatori della necessaria rieducazione degli adulti distratti o inariditi.

Insegnare al figlio (o a un bambino in generale) ad andare in bicicletta è stimolargli l’autonomia, la coordinazione motoria, l’equilibrio, mettere le rotelle alla bicicletta e adeguare l’altezza del sellino nel momento opportuno, sostenerlo da dietro e assumere da lui una certa distanza, costruire un ricordo comune. È metafora dell’educazione.

L’educazione è utile e necessaria, è funzione umana: serve a edificare vite e a editare storie.

 

Diritto all’istruzione, diritto al futuro

 

“L’economia culturale crea occupazione e contribuisce al benessere delle comunità, all’autostima individuale e alla qualità della vita” (Irina Bokova, politica bulgara, in funzione di Direttore Generale dell’UNESCO, novembre 2013). Nell’art. 4 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla congiuntamente di “diritti economici, sociali e culturali”. I diritti culturali sono scritti per ultimo non perché siano ultimi, ma perché obiettivo ultimo. I diritti culturali non si esauriscono nell’istruzione che ne è solo la base, ma sono una continua costruzione della persona e dell’umanità.


La cultura non è solo istruzione ma anche disostruzione mentale e costruzione sociale, astrazione, estrazione…è passato, presente, futuro. È questo il salto di qualità di cui dovrebbe essere artefice la scuola e non adeguarsi alla distruzione che si opera intorno.
“La Convenzione ONU “on the Rights of the Child – CRC”, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991, riconosce infatti che i bambini, le bambine e gli adolescenti sono titolari di diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici. Nonostante i progressi compiuti fino ad oggi, però, ancora molti fanciulli in tutto il mondo continuano a vivere in condizioni di estrema povertà, sono esposti a violenze, abusi e sfruttamento, o sono privati dell’accesso all’istruzione. Quest’ultima è un diritto fondamentale e un mezzo essenziale per permettere ai bambini di raggiungere il loro pieno potenziale” (cit.). I diritti dei bambini sono violati anche nei Paesi più ricchi dove pure il diritto all’istruzione non è adeguatamente tutelato, per esempio edilizia non a misura di bambino, attività didattiche calate dall’altro, classi-pollaio e tante altre situazioni.


La testimonianza di Hanan Al Hroub, maestra elementare in un campo profughi: “[…] insegno ai bambini che l’unica arma buona è la conoscenza, l’unico nemico l’ignoranza”. L’art. 39 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “Gli Stati parti adotteranno ogni appropriata misura al  fine  di assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza, di sfruttamento o di sevizie, di tortura o di qualsiasi altra forma di trattamento o punizione crudele, inumana o degradante, o di conflitto armato. Tale recupero e reinserimento avrà luogo in un ambiente che favorisca la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo”. L’istruzione è uno dei migliori mezzi di recupero e reinserimento per bambini e ragazzi deprivati o a rischio, basti vedere le iniziative di istruzione nei carceri minorili. 


Nell’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è disciplinato il diritto all’istruzione e nel par. 2 si specifica: “L’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. È disciplinato in uno degli ultimi articoli della Dichiarazione perché l’istruzione è di supporto e suffragio agli altri diritti. Di questo si dovrebbe tener conto nelle scelte politiche che dovrebbero investire di più e prioritariamente nell’istruzione. 
Nell’art. 28 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] rendere l’istruzione superiore accessibile a tutti sulla base delle capacità con ogni mezzo opportuno”.  E i mezzi opportuni per rendere concreto ciò sono vari. “L’allenamento al problem solving, l’educazione alle scelte decisionali, la cooperazione tra pari, il fallire per poi correggere e la partecipazione a storie di vita vissuta sono tutte pratiche che rendono gli adolescenti più autonomi, più consapevoli delle proprie capacità, più fiduciosi nel futuro e più resilienti, tutte caratteristiche che aiutano non poco, sia nella prosecuzione futura degli studi universitari che nell’affrontare il mondo del lavoro” (Addolorata Mazzotta, dirigente scolastica). 
Da notare che nella Costituzione si parla di istruzione nell’art. 30, relativo ai genitori, e negli articoli 33 e 34, relativi alla scuola; i tre articoli sono inseriti nella Parte I “Diritti e doveri dei cittadini” e sotto il Titolo II “Rapporti etico-sociali”, per sottolineare la centralità dell’istruzione nella formazione del cittadino e nella vita quotidiana e i differenti (e non diversi) e complementari ruoli della famiglia e della scuola. Inoltre, l’istruzione è una delle attività o funzioni che più rispecchiano l’art. 4 della Costituzione, perché concorre al progresso materiale o spirituale della società.


L’insegnante, “colui che lascia un segno”, pertanto, dovrebbe essere lui stesso “segnato” nel vero senso di sentirsi chiamato a fare questo “mestiere”, parola che etimologicamente deriva da “ministro, servo”. E l’insegnamento è il servizio pubblico per eccellenza.
Oltre alla Costituzione italiana, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, riferimenti all’istruzione, e precisamente richiami all’istruzione di qualità, si rinvengono in molte fonti internazionali, tra cui l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile nel cui Obiettivo 4 si prevede quanto di “bello” (che deriva da “buono”) si possa preparare per le nuove generazioni: “Costruire e potenziare le strutture dell’istruzione che siano sensibili ai bisogni dell’infanzia, alle disabilità e alla parità di genere e predisporre ambienti dedicati all’apprendimento che siano sicuri, non violenti e inclusivi per tutti”.
Fra i tanti bisogna porre attenzione a quanto si legge nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986) sotto la rubrica “I prerequisiti per la salute”: “Le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l'equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”. 


Nell’Obiettivo 1 dell’Agenda di Seoul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione all’arte (2010) si prescrive: “Garantire che l’educazione all’arte sia accessibile come componente fondamentale e sostenibile di un rinnovamento dell’istruzione”.
In queste fonti l’istruzione è associata alla salute e all’arte, tra le peculiarità più umane, che rendono persona l’essere umano e, perciò, l’istruzione è più di un diritto e di un dovere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sociologia giuridica della vita di coppia

 

 

Sintesi: Cosa significa amare? Significa vedere una persona, una situazione per ciò che sono
realmente
Abstract: L’articolo indaga le dinamiche sotterranee che consentono ai due di fare coppia, di
essere coppia

 

Si tende a parlare della coppia soprattutto “in negativo”, ovvero crisi della coppia, sostegno alla
coppia in crisi, terapia di coppia, oppure aggettivandola, come coppia genitoriale, eterosessuale,
omosessuale, aperta o altro. Occorrerebbe, forse, una maggiore consapevolezza della dimensione
della coppia, anche per distinguerne le varie fasi e per vivere in maniera fisiologica l’avvento delle
crisi che non possono mancare, e consapevolezza pure che le crisi di coppia e la conflittualità
esacerbata causano elevati costi economici, psicologici e sociali.
Innanzitutto bisogna partire dalla concezione dell’amore che non è un sentimento né punto di
arrivo o un obiettivo cui mirare ma l’orizzonte comune e, come l’orizzonte, cambia di volta in
volta. “Cosa significa amare? Significa vedere una persona, una situazione per ciò che sono
realmente, non per come le immaginate. E dare a quella persona e a quella situazione la risposta che
merita” (padre Anthony De Mello, psicoterapeuta indiano). Non innamorarsi della propria idea di
amore riflessa nell’immagine di qualcuno, ma dell’identità dell’altro riflettente amore. Così
nell’amore di coppia, così nell’amore genitoriale, in caso contrario non è amore ma dipendenza
affettiva o peggio (che portano, in casi estremi, allo stalking o a forme di violenza).


Cerimonia nuziale: i due guardano con emozione, si guardano con commozione. Cerimonia ha lo
stesso significato etimologico di sacrificio: “fare cosa sacra”. Quale sacrificio migliore se non
l’amore? Il matrimonio è una continua cerimonia, “atto, azione, pratica sacra”, e non qualcosa a
termine “tanto, poi, ci si può separare”. Non si sta o si vive con una persona o ci si sposa per una
presunta questione di età avanzata, per timore della solitudine, per aspettative altrui, perché ci si
dispiace di lasciare l’altro prima del matrimonio di cui non si è più convinti, perché l’altro più o
meno piace, per sogni infantili, per progetti fasulli, per “chiodo schiaccia chiodo” o altro ancora. La
vita di coppia e in coppia è una scelta, una scelta determinata ma non mirata, una “continua” scelta
dell’altro e “contigua” all’altro, frutto del leggere innanzitutto in se stessi e nel separare la parte
migliore dalla peggiore, dell’eleggere il bene per sé e per l’altro (dal significato etimologico di
“scegliere”), senza trascurare le conseguenze evidenti o latenti nelle vite delle altre persone, a
cominciare dai bambini. Il matrimonio (o una convivenza stabile) non è una “sistemazione” ma
dell’amore un “sistema d’azione”: non è un gioco di parole ma come fare della vita in due uno dei
più bei giochi di vita.
“Il matrimonio è creare una terza persona” (dal film drammatico “The danish girl”). Il
matrimonio è un percorso: coppia coniugale, famiglia, coppia genitoriale, eventuali figli. Passaggi
da tenere presenti e distinti in ogni momento, anche e soprattutto nei casi di conflittualità.
Metamorfosi i cui passaggi si evincono pure dai tre articoli del codice civile letti durante il rito del
matrimonio, gli articoli 143, 144 e 147. La vita coniugale è una staffetta o corsa ad ostacoli, le cui
“regole del gioco” sono scritte prevalentemente negli articoli del codice civile letti, non a caso,
durante il rito del matrimonio.


“Diventare una carne sola” non è tanto un fatto fisico quanto una dimensione spirituale: vivere nella
stessa sfera d’amore pervasivo e effondente. Questa la vera e auspicata sublimazione della coppia.
Lo studioso gesuita Giovanni Cucci scrive: “La testimonianza di una sposa indiana, che qui
riportiamo, può apparire lontana dalla mentalità occidentale, eppure rivela una verità preziosa, più
volte emersa in queste pagine. L’impegno può generare un amore capace di dare stabilità alla
relazione, consentendo alla coppia di provare una soddisfazione che dura nel tempo: «Noi basiamo
il nostro matrimonio sull’impegno rappresentato dalle promesse matrimoniali, non sui sentimenti.
Altrove, dove il matrimonio si basa sui sentimenti, cosa succede quando questi diminuiscono? Non
ti resta niente per tenere il matrimonio unito»” (in “La coppia e la sfida del tempo”, ottobre 2016). I
“segreti” della durata di un matrimonio sono altresì quegli obblighi indicati dall’art. 143 comma 2
cod. civ.. Ogni coppia ha un proprio equilibrio, ma è anche vero che la bilancia non può avere i
piatti in perfetto equilibrio né tantomeno un piatto che pende sempre da una parte: i piatti devono
oscillare nella ricerca dell’equilibrio ogni giorno. È un equilibrio con l’altro non per cercarlo
nell’altro, ma dopo averlo trovato in se stessi per donarselo reciprocamente: fare coppia, essere
coppia. Anche questo il senso dell’essere coniugi, etimologicamente “uniti dal giogo”: il carro si
porta avanti insieme.


Dagli artt. 143 e 144 cod. civ. si ricava una “dimensione domestica” della coppia e della
famiglia, come base e cemento della vita personale e interpersonale e la cui mancanza è spesso
causa di incomprensioni, allontanamenti e crisi. Dimensione domestica che si concretizza in
piccoli gesti: stare di più in casa, dedicarsi alle pulizie, non programmare necessariamente week end
o vacanze fuori che possono essere più stressanti del lavoro quotidiano, ritrovarsi a tavola solo in
due e non con ospiti. Anziché confidarsi con altri, bisognerebbe comunicare di più nella coppia, nel
bene e nel male.


“Devi aprire tu. Ci hai portati in questo rifugio che hai costruito per noi contro i tornado. Ma ora la
tempesta è finita. So che hai paura di spalancare la porta, ma non posso farlo io per te. Non sarebbe
la stessa cosa. Sono tua moglie e qui c’è tua figlia. Stiamo dalla tua parte. Vinci la paura, te ne
prego. Non credere ai rumori di acqua e vento che ti picchiano nella testa. Basta con le maschere
antigas, basta col buio, l’isolamento, l’immobilità. Fuori forse ci sono già il sole e l’azzurro che ci
aspettano. Usa quella chiave. Puoi farlo. Devi farlo” (dal film “Take shelter”). Quello che ci si
dovrebbe dire in una coppia dopo una tempesta di qualsiasi natura. La vita di coppia dovrebbe
essere così: pur non avendo gli stessi interessi, gli intenti da perseguire e i passaggi da seguire
dovrebbero essere gli stessi, altrimenti ci si perde di vista come spesso succede. L’amore non è un
compromesso con l’altro, né una gabbia con l’altro o dell’altro. La coppia non diventi cappio: non è
solo un gioco di parole, ma per alcuni diventa vita in gioco.


Coppia, da “attaccare, legare, congiungere”: così si cade e ci si rialza insieme. La mancanza di
comunicazione, alla lunga, causa la lacerazione della relazione. Il filosofo francese Jacques Maritain
richiamava: “Non bisogna confondere amare con cercare di piacere”. “Amare” ha lo stesso numero
di lettere e iniziale e finale come “avere”, perché amare è avere in sé e con sé tutto quello di cui si
ha bisogno e non il piacere effimero o il possesso fisico: questo dovrebbe essere il progetto di una
relazione d’amore e l’orientamento dell’educazione sentimentale da trasmettere non solo agli
eventuali figli ma alle nuove generazioni in generale.


“Solo, dunque, finché morte non mi separi. Questo è il prezzo, suppongo, che si deve pagare a
questo mondo per aver voluto essere libero. È caro o a buon mercato, mi domando? Dovrei ridere o
piangere? Chi lo sa! Ad ogni modo, non me ne sono mai crucciato, finché ero in vita. E ora è troppo
tardi per fare i conti. Ma forse ci si può domandare se libertà e solitudine non vanno mano nella
mano a questo mondo, così come appare, se si vuole rimanere un essere umano” (lo scrittore
svedese Bjorn Larsson). Così nella coppia bisogna conservare sempre uno spazio di libertà e
solitudine: fondersi ma non confondersi, appartenersi ma non possedersi. Resistere fa parte
dell’esistere, del coesistere con gli altri, dell’insistere avverso le difficoltà. Stare insieme è una
continua “elezione”, non una continua condanna: così la vita di coppia.


“Prendimi per mano e insegnami ad imparare di nuovo quello che ho disimparato [...] prendimi per
mano e dimostrami che non è finita” (cit.). Abbandonarsi all’altro e sperare in altro: anche questo è
prestare e prestarsi assistenza nella coppia (art. 143 comma 2 cod. civ.), sino a rivolgersi ad una
figura professionale, se e quando necessario e non a ogni piè sospinto. Perché delegare ogni
situazione o problema ad altri farebbe venir meno la propria dimensione personale e interpersonale.
Dopo uno smarrimento, l’amore è avvicinarsi in silenzio dentro spazi vuoti cercando di chiudere le
brecce al passato. “Coppia” è diverso da “paio”: è quell’unione, quel legame in cui anche se si
perde uno, c’è l’altro che rimane, aspetta chi si smarrisce o lo va a cercare.
“Arriveremo con quanto di prezioso abbiamo, le molte ferite della nostra storia. Le ferite ci hanno
scavato. Ci hanno costretto a prendere distanza dalla ricchezza esteriore. La realtà più preziosa che
abbiamo è un cuore che è capace di amare. Le ferite ci hanno messo in contatto con il nostro cuore”
(lo scrittore Bruno Ferrero). Quando in una coppia non ci si comunica più le reciproche ferite ma ci
si accanisce a procurarsene altre, non resta altro che andare via attraverso quella feritoia aperta nel
cuore per amore di se stessi e della vita, che è sempre più bella e nuova rispetto allo sprecarsi o
ripiegarsi in un amore finito.


“Gli ultimi momenti di un essere amato possono essere l’occasione per spingersi il più lontano
possibile insieme a quella persona, in un’intimità e in una profondità in certi casi mai raggiunte
prima – per la psicologa e psicanalista francese Marie de Hennezel –. Si crede di conoscere tutto
dell’altro, ed ecco che si scopre ciò che non si sarebbe mai sospettato, emergono tesori di umanità.
Nonostante le piaghe della malattia, l’essere umano ha ancora qualcosa da trasmettere” (in “Morire
a occhi aperti”, 2014). La morte, fisica o interiore, nella vita di coppia è una delle situazioni più
importanti in cui accostarsi all’altro, mettersi alla sua scuola, concretizzare ripetutamente e
strenuamente l’assistenza morale e materiale (art. 143 comma 2 cod. civ.), vivere la formula “finché
morte non ci separi” espressa durante la celebrazione del matrimonio concordatario.


Coppia, coniugio: continuare ad abbracciarsi, a sentirsi e mantenersi uniti, nonostante i
cambiamenti, oltre i turbamenti, negli essenziali ed esistenziali momenti. Una coppia non è fertile
se genera figli, ma genera se è fertile d’amore e vita: questo è “fare l’amore”, questo è il distintivo
della coppia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Genitorialità, oralità della vita

 

 

Abstract: L’articolo scava i significati più intimi dell’essere genitori, arte che si modella con i figli
e non sui figli

Nell’antica Roma il Genio (Genius, con la stessa radice di “gens” e del verbo “gignere”, generare)
era una divinità relativa al culto domestico, cioè la divinità tutelare della forza generativa di ogni
uomo e quindi anche di ogni famiglia (mentre ogni donna pare aver avuto la propria Giunone, Iuno)
cui si dedicavano dei riti. Genio, perciò, è da intendersi in senso lato come l’identità e intimità della
famiglia, nel bene e nel male. Come potrebbe (o dovrebbe) essere intesa la genitorialità (che deriva
da “genio”) tenendo conto della forza creativa delle parole. 
“Genitorialità” contiene la parola “arte”, perché è un’arte. Può essere assimilata all’arte pasticcera,
perché bisogna rispettare la miscela degli ingredienti, le dosi, i tempi di lievitazione, di infornatura,
avere passione, pazienza, dedizione, saper inventare, guarnire, decorare, e ogni regione geografica
ha le sue varianti e peculiarità come ogni famiglia. 
Dalla parola “genitorialità” si possono ricavare altre parole e creare dei giochi di parole, per cui
genitorialità è dare: “origine” alla vita; “alito” di vita; “altare” all’amore; “torte” da preparare; forza
come “tori”; “giornate” da condividere; “ali” per librarsi; “orti” da coltivare; “ori” da conservare e
“altro” di più; “arti” da esercitare; “originale”, perché ogni genitore lo è a suo modo come l’unicità
di ogni figlio. 
Le R della genitorialità: relazione, responsabilità; responsività; rituali educativi da costruire; ricatti
affettivi da evitare; riconoscimento; ristrutturazione della rete familiare e parentale, ricordi (tra
l’altro i genitori devono tenere a mente che i bambini acquisiscono competenze linguistiche sin
dalla nascita o dal grembo materno); rispetto; ruoli; rischio. 
Genitorialità: è accudire, custodire la vita dei figli. Entrambi i verbi contengono “dire” perché la
genitorialità è un dire di sé, mediante l’esempio, l’essenza, l’esserci. 
Ogni persona è un essere omeostatico e la genitorialità è una delle esperienze di vita che richiede
ancor di più questa ricerca di equilibrio. Anche ogni processo cellulare è un equilibrio tanto che,
quando qualcosa non va, si manifestano alterazioni o patologie. In questa ricerca di equilibrio della
genitorialità il legislatore fornisce varie indicazioni, tra cui quelle dell’art. 147 cod. civ.. In
particolare, sono significative le locuzione “assistere moralmente” e “nel rispetto delle loro […]
inclinazioni naturali”, ovvero i genitori non devono far mancare la loro presenza, il loro sguardo
educativo lungimirante, non assecondare ma rispettare le inclinazioni naturali dei figli (che,
altrimenti, potrebbero pure non voler far nulla) senza forzarli a fare quello che loro avrebbero
voluto fare o vorrebbero farne (per esempio far studiare pianoforte anziché batteria) e non essere
amici dei figli. 
Anche l’art. 315 bis del codice civile offre una guida ai genitori. Nei primi commi si parla dei diritti
del figlio e nell’ultimo si parla dei doveri del figlio non perché il senso del dovere sia ultimo, ma
perché il figlio deve prima vivere e crescere nel rispetto per poi contraccambiarlo. Come si legge
pure nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, articolo relativo
all’educazione, dove alla lettera a prima si parla dello sviluppo della personalità del fanciullo e, poi,
alla lettera c si parla di rispetto dei genitori. La relazione e il rispetto sono circolari e reciproci come
si ricava altresì dall’etimologia delle due parole. La genitorialità non è né possesso né potere sul
figlio ma ponte verso il figlio e ponte di vita, forse un ponte tibetano perché frammezzato da
difficoltà e, al tempo stesso, da forti emozioni.
Il pedagogista Daniele Novara scrive: “I bambini manifestano tante paure, più o meno razionali,
semplicemente perché sono piccoli e avvertono un senso di impotenza legata alla loro condizione. Il
genitore ansioso e iperemotivo alimenta questi timori oltre misura con le classiche esortazioni: «Dai
su, perché fai così?», «Forza, sei grande, smettila di fare il bambino spaventato» o frasi analoghe
che finiscono per segnalare l’apprensione del papà o della mamma”. Essere genitori non è solo dare
la vita ma fornire anche l’alfabeto della vita, gli strumenti per codificare e decodificare situazioni ed
emozioni. Per fare ciò è necessario che la genitorialità sia espressione di adultità, maturità, idoneità
ad approntare e/o affrontare le varie circostanze della vita e le conseguenti reazioni ed emozioni
(come nei tempi del coronavirus). “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli
ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è
creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il
controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado
di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (dal paragrafo
“Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).
Per gli insegnanti c’è un minimo di criterio di selezione mentre per i genitori no. Per la genitorialità
non ci sono regole da dettare perché la genitorialità è quotidianità, singolarità, originalità. Si
possono fornire, però, “con-sigli” per il percorso, quali accorgimenti e accortezza, conforto e
confronto, rispetto e reciprocità (tra i genitori e tra genitori e figli), che sono tra gli elementi che più
spesso mancano. In passato si chiedevano e si ascoltavano i consigli delle proprie mamme, delle
vicine, degli insegnanti. Oggi, invece, sembra che ci si armi dello slogan: “Il figlio è mio, tutto mio
e me lo gestisco a modo mio!”. La genitorialità è una capacità che cresce (o dovrebbe crescere) con
l’età dei figli facendosi “com-petenza” e “com-potenza” (anche per prevenire “crisi di impotenza” o
“deliri di onnipotenza”, propri o dei figli). Queste indicazioni si possono ricavare pure dalle fonti
normative tra cui la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e in particolare dall’art. 18
che si riferisce direttamente ai genitori.

Nel 2019 è stata pubblicata la “Child-Focused Parenting Time Guide” ( “ Guida ad un Piano dei
tempi genitoriali centrato sul minore”), a cura del Minnesota State Court Administrator’s Advisory
Committee on Child-Focused Parenting Time (amministratore del tribunale statale del Minnesota
Comitato consultivo sul tempo dei genitori incentrato sui minori). Questa preziosa e analitica guida
(che ha aggiornato e approfondito un precedente documento, frutto di uno studio concluso nel 1997)
contiene informazioni mirate a favorire l’esercizio della genitorialità di entrambi i genitori a seguito
della separazione, nel tentativo di limitare al massimo gli effetti negativi sui figli delle eventuali
conflittualità tra i partner. Di particolare interesse l’individuazione di linee operative analiticamente
suddivise secondo le età dei figli, a conferma della centralità del “best interest of the child”, e nella
realistica consapevolezza che i bisogni dei bambini e le modalità di interazione con i due genitori
non possono non cambiare - a volte anche radicalmente - nel corso del tempo, dalla prima infanzia
fino all’adolescenza. Perché i bambini hanno diritto al tempo, al loro tempo, alla loro età e anche
alla distinzione tra infanzia e adolescenza, a maggior ragione nelle situazioni di separazione e
divorzio che sono scelte dai loro genitori (tutto ciò è espresso nella Carta dei diritti dei figli nella
separazione dei genitori, 2018).

Alla luce dell’aumento di genitori incompetenti, di matrimoni falliti, di rapporti conflittuali e di
bambini contesi, ragazzi devianti, sarebbe necessario istituire o costituire “scuole” sulla
genitorialità. Vari sono gli indici normativi che supportano questa necessità, a partire dall’art. 31
della Costituzione da cui si ricava la tutela della formazione della famiglia e della protezione della
maternità e dell’infanzia. E già prima dell’art. 31, l’art. 2 sulla solidarietà e l’art. 3 sulla rimozione
degli ostacoli. Ai principi costituzionali si aggiungono alcuni atti internazionali, tra cui le
summenzionate Carta di Ottawa per la promozione della salute e Convenzione Internazionale sui
Diritti dell’Infanzia. 

Negli USA, soprattutto dopo l’emergenza sanitaria del coronavirus, sono stati attivati percorsi
formativi online sulla genitorialità, dai temi più generali fino alle situazioni più specifiche e
complesse. I corsi sono a pagamento, e molti di loro sono accreditati presso numerosi tribunali dei
vari Stati, dal momento che molti giudici prescrivono ai genitori percorsi formativi obbligatori. Per
quanto apprezzabile c’è da chiedersi se la genitorialità possa essere una competenza da acquisire o
maturare online e se si possa sostituire/costituire ogni relazione con la modalità digitale. Occorre,
piuttosto, risalire all’etimo di “digitale” che deriva dal latino “digitalis”, a sua volta da “digĭtus”,
“dito”: la genitorialità dovrebbe riacquisire la capacità di usare le “dita” con i figli, riappropriandosi
delle attività manuali di una volta, dal contadino al tornitore.https://www.margheritamarzario.it © 2023
Genitorialità: maternità e paternità, latte e miele, dolcezza e tenerezza. “Ogni fanciullo ha il diritto
di avere dei genitori o, in loro mancanza, di avere a sua disposizione persone o istituzioni che li
sostituiscano” (art. 8.11 Carta europea dei diritti del fanciullo): una delle poche disposizioni in cui
si afferma il “diritto ai genitori”, in cui si ribadisce la soggettività piena del bambino guardando le
cose dalla sua posizione e non da quella dei genitori. 

La genitorialità è una scelta e i figli non sono impegnativi ma sono un impegno. “Ogni fanciullo ha
un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Il
pediatra spagnolo Carlos Gonzalez sostiene: “Se volete portare vostro figlio in braccio, fatelo. Se
volete smettere di lavorare per mesi o per anni per crescerlo, o rifiutare una magnifica opportunità
di lavoro all’estero per stare con la vostra famiglia, fatelo. Ma solo se volete. Se non volete, non
fatelo. Dire: ”Ho sacrificato la mia carriera per stare con mio figlio” è assurdo tanto quanto: “Ho
sacrificato la relazione con mio figlio per la carriera”. Non sono sacrifici, sono scelte. Vivere è
scegliere, le giornate hanno solo ventiquattro ore e chi fa una cosa non può farne un’altra
contemporaneamente. Scegliete quello che in ogni momento vi sembra opportuno, e basta. Chi fa
quel che vuole non sta rinunciando, sta riuscendo, non si sacrifica, ma trionfa” (in “Un dono per
tutta la vita”, 2018).

“Coraggio” etimologicamente deriva da “cuore”: entrambe le parole rappresentano (o dovrebbero
rappresentare) la famiglia perché la genitorialità è atto di coraggio e di cuore. 
Consapevolezza, altra parola chiave: addirittura si organizzano percorsi di consapevolezza perché
mancano la maturità, l’adultità, la responsabilità. Quello che dovrebbe essere la genitorialità,
percorso di consapevolezza sull’essere genitori e sull’avere figli. 
“ Tutti i bambini adottati portano con sé l’esperienza dell’abbandono e della perdita. Sono bambini
che si sentono privi di valore affettivo e che pensano di non meritare l’amore dei genitori. Ma sono
anche bambini con grandi risorse, aperti alle esperienze positive che l’adozione può regalare loro
e desiderosi di credere in un mondo migliore di quello che hanno conosciuto” (cit.). La genitorialità
adottiva parte da una maggiore consapevolezza che i figli non sono “propri” e che hanno un loro
bagaglio di vita che può presentare ogni sorta di imprevisto. La genitorialità adottiva dovrebbe “fare
scuola” ad ogni forma di genitorialità. 

La genitorialità adottiva insegna e conferma che la genitorialità non è geneticità (trasmettere il
proprio patrimonio genetico) ma oralità, ovvero trasmettere, diffondere, comunicare amore, vita. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il diritto dei bambini alla lettura

 

 

 

 

Quanto sia importante ed efficace la lettura precoce, sia per stimolare lo sviluppo cognitivo e lessicale dei bambini sia per costruire e cementare le relazioni familiari (la memoria familiare), ormai è un dato acquisito (anche grazie al fondamentale lavoro culturale realizzato in questi anni dal programma Nati per leggere).

Secondo l’esperto Federico Batini: “La lettura ad alta voce gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’empatia fin dall’età prescolare, ricoprendo un ruolo determinante nel promuovere un positivo sviluppo psicosociale, fondamentale per la messa in atto di comportamenti empatici. Comprendere le intenzioni, le emozioni ed entrare in empatia con il personaggio di un racconto può essere di aiuto al bambino per il corretto sviluppo e la decodifica del mondo reale e dunque facilitargli le relazioni. Entrare in relazione ed empatizzare con un personaggio non implica solo la comprensione del suo stato emotivo, ma anche la capacità di provare le sue emozioni”. Generalmente non piace leggere perché la lettura viene posta come un dovere e non come un piacere e ancora meno come la possibilità di leggere in se stessi e in mondi inesplorati.

Batini aggiunge: “Un’altra indicazione molto importante riguarda la gratuità: la lettura ad alta voce non deve essere collegata a attività altre, si tratta di una didattica in sé conclusa e di un importante gesto di attenzione e stimolo che non chiede qualcosa in cambio. La didattica della lettura ad alta voce si completa con la fase della socializzazione: un momento in cui i bambini e le bambine possono esprimere il proprio punto di vista. E questo si può facilitare attraverso domande stimolo, domande aperte: “Secondo voi come andrà a finire? Quale personaggio vi è piaciuto di più perché? E voi al posto di quel personaggio che cosa avreste fatto?” Ogni intervento deve essere valorizzato: da questo scambio i bambini e le bambine imparano moltissimo dai contributi degli altri”. La lettura, ancor di più quella ad alta voce, è multifunzionale: è un atto di libertà, educazione alla libertà, donazione di tempo, proposta di una chiave di lettura del mondo interiore e quello esteriore. Ancora Batini suggerisce: “Bisogna fare la lettura ad alta voce, in modo quotidiano, e servirsi pure delle varie metodologie, tra cui il Kamishibai, ma non teatralizzare la lettura che, altrimenti, non è più lettura” (in un webinar del 18-10-2023). Quel che conta è che l’insegnante sia lettore, un buon lettore, appassionato e appassionante, convinto e coerente con il suo stile educativo. Non è necessario che si specializzi come “promotore della lettura”.

Anche l’esperta Barbara Dragoni afferma: “Nelle prime settimane di scuola, è estremamente importante instaurare un’educazione alla lettura corretta e funzionale, che rappresenta una priorità didattica fondamentale per le discipline umanistiche (e non solo). Leggere insieme libri o parti di essi, di diversi generi e formati, e condividere opinioni e interpretazioni, consente di riflettere, discutere, conoscersi reciprocamente, iniziare ad empatizzare e, in definitiva, gettare le basi per creare uno spirito di autentica comunità. La lettura di libri permette anche di suscitare curiosità e interesse verso la lettura stessa e può fin da subito far scoprire che leggere può diventare un vero e proprio piacere”. Leggere ai bambini è stimolare la loro autonomia di pensiero, favorire il benessere e prendersi cura di loro nell’interezza della persona, in conformità della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei (2021).

Bisogna educare alla lettura delle immagini senza però “bombardare” i bambini, soprattutto in tenera età, con ogni sorta di immagine (sovraccarico di cartelloni, dipinti sui vetri, LIM) dato già l’“inquinamento visivo” dilagante in ogni ambiente. La scuola deve fornire gli strumenti per far imparare ad “osservare” le immagini, saperle distinguere, vedere oltre, e sviluppare così l’immaginazione che, invece, risulta spesso frenata. Basti leggere i suggerimenti contenuti nella Carta dei diritti dei bambini all’arte ed alla cultura (Bologna, 2011). Andrea Sola, promotore della pedagogia libertaria, spiega: “L’utilizzo delle immagini come forma autonoma di linguaggio è spesso trascurato nei percorsi scolastici, ma in realtà, ogni esperienza di vita, ogni ricordo autobiografico e ogni nuovo apprendimento possono essere descritti anche attraverso le immagini, non solo con il linguaggio discorsivo. È quindi utile sviluppare un’alternativa pedagogica che sappia utilizzare gli strumenti espressivi di natura estetica, compresi quelli digitali, per un loro uso formativo”.

Mediante l’arte e la cultura si forniscono ai bambini strumenti imperituri e proficui con cui leggere e interpretare la realtà superando la limitatezza e la caducità delle cose materiali. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Lo scrittore Alessandro D’Avenia puntualizza: “Alla liquidità del mondo di oggi si risponde con la profondità della propria identità; solo chi ha un’anima antisismica può resistere ai terremoti contemporanei, perché solo quando l’anima è pronta allora sono pronte anche le cose e non viceversa”. Attraverso la lettura si fanno vivere storie ed esperienze di ogni sorta per cui si contribuisce alla costruzione di “un’anima antisismica”.

Anche la scrittrice Michela Murgia conviene: “[…] noi non abitiamo solo gli indirizzi dove ci arriva la posta: abitiamo anche nelle storie che ci sono state raccontate sin da quando eravamo bambini. Meno ne abbiamo a disposizione, più angusta e cupa è la casa mentale in cui ci svegliamo ogni mattina”. È importante narrare, raccontare, raccontarsi, leggere e inventare storie con i bambini perché si forniscono vari linguaggi e si stimolano le intelligenze, si contribuisce alla formazione della loro identità che è fatta di elementi che sono propri di quel singolo e di elementi che sono “identici” agli altri.

A scuola si dovrebbero non fare le domande agli alunni ma suscitarle e ascoltarle. Leggere non è solo leggere libri ma leggere in sé e leggere la realtà, intus legere e inter legere (quello che è il significato etimologico di “intelligenza”). “Spesso le domande dei bambini ci lasciano spiazzati e di solito non rispondiamo cercando di sviare o ingarbugliare il discorso o rimandare a quando saranno più grandi e potranno capire. Forse perché gli adulti non sono all’altezza delle domande serie e vere dei bambini (…). Si incontra poi la scuola dove spesso si attribuisce più importanza al saper recitare risposte che al fare domande. E poco a poco si smette anche di sperimentare il mondo, di cercare soluzioni autonome alle proprie domande; le scienze si studiano sul libro, magari leggendo inizialmente il capitolo sul metodo sperimentale” (Enrica Giordano, esperta di didattica della fisica). La lettura a scuola dovrebbe essere preceduta e continuata in famiglia. “La famiglia va sostenuta, aiutata, ma va anche raccontata. In un mondo di crescenti solitudini, ma con un bisogno intatto di affettività e di calore familiare […] c’è bisogno di un cambiamento culturale. Essere genitori deve tornare ad essere socialmente premiante, non un ostacolo alla realizzazione personale in particolare delle donne. Solo con un clima accogliente, nella concretezza dell’organizzazione sociale e nella percezione di un sistema favorevole, la famiglia tornerà ad essere centrale e la discesa demografica potrà essere fermata. E […] partendo da un rapporto – quello tra la famiglia e il libro – che è inscindibile da secoli: ogni romanzo racconta in qualche modo di una famiglia, ogni storia è una storia di famiglia” (Eugenia Roccella, ministro per la famiglia). In famiglia si deve leggere, raccontare, narrare, perché si contribuisce alla costruzione dell’identità (anche la cosiddetta identità narrativa), al benessere di ciascun membro e dell’intera famiglia e tutto ciò si riflette all’esterno. A questo si aggiunge quanto la lettura in casa sia rilevante anche per il coinvolgimento dei padri. Leggere (ad alta voce) è fornire ai bambini strumenti per l’esercizio dei propri diritti, contribuisce a impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione (parafrasando l’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).