free stats

I diritti dei bambini all’arte e alla cultura nel postdigitale

Abstract: L’articolo esamina le potenzialità dell’educazione all’arte e alla cultura, anche per migliorare i rapporti tra genitori e figli e per costruire un futuro migliore

 

Tra i vari esperti lo psichiatra Paolo Crepet mette in guardia da uno dei crescenti pericoli di oggi: “L’utilizzo prolungato dei social media e dei device tecnologici, aumentato negli anni di pandemia, atrofizza il cervello e influisce drasticamente sulla forma mentis dei giovani, il cui apparato cognitivo è continuamente interrotto in un incessante «zapping mentale». Ne consegue un calo delle capacità di attenzione, di lettura, di apprendimento e di memoria: sicuramente un allarme preoccupante da non sottovalutare. I ragazzi non sono più abituati a ragionare con la propria testa, in piena libertà, ma sono condizionati nelle loro scelte dalle opinioni degli influencer”. I genitori dovrebbero avviare (che non significa iscriverli e accompagnarli ai numerosi corsi pomeridiani) e condividere con i figli esperienze di arte, cultura e natura, come previsto anche nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna, 2011).

 

Già Giovanni Cavina (1924-2009), “educatore visionario” e ideatore e direttore di una residenza universitaria organizzata come un sorta di “tempio della cultura”, a proposito di scienza e dell’incredibile progresso scientifico, nel 1981 parlava di “amico computer” e affermava: “Se i fruitori delle conoscenze computerizzate saranno più seri, più corretti, più colti, tutto andrà per il meglio; altrimenti, correremo il rischio di essere totalmente manipolati da perdere, con le capacità di immaginazione, di inventiva e di fantasia, la libertà e quindi la felicità” (nella rivista “Panorama per i giovani”). Bambini e ragazzi devono essere educati a usare mezzi tecnologici e device di ogni genere, come mezzi e non come obiettivi della loro vita quotidiana, “senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (mutuando la terminologia dell’art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura) e preservando tutti i loro diritti.

 

Alla fine del XIX secolo Lev Tolstoj, scrittore e anche educatore russo, scriveva: “[...] i ragazzi non si lasciano ingannare... Noi cerchiamo di dimostrare che siamo intelligenti, ma essi non se ne interessano affatto, e vogliono sapere se siamo onesti, se siamo sinceri, se siamo buoni, se siamo compassionevoli, se abbiamo una coscienza [...]. Un buon insegnante deve avere una buona vita ed una sola è la caratteristica generale e principale di una buona vita: l’aspirazione al perfezionamento nell’amore”. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). I genitori non si devono preoccupare solo dell’alimentazione necessaria al corpo dei figli, ma anche del nutrimento della loro interiorità recuperando il vero senso dell’essere genitori: “padre”, colui che sostiene, “madre”, colei che produce. La vita stessa è un processo artistico che richiede intelligenza emotiva: quello di cui dovrebbero occuparsi e preoccuparsi i genitori, ma non sempre è così perché loro stessi non la vivono così o non la rendono così.

 

L’esistenza dei bambini, lo stare con loro è una delle conferme che il tempo è impalpabile e gli si dà senso e consistenza con relazioni e emozioni, col dare, dire e condire la vita in ogni luogo e uopo. Anche per questo è opportuno che i bambini possano “condividere con la famiglia il piacere di un’esperienza artistica” (art. 9 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

A tale proposito lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni precisa: “Come educatori, spesso ci si lamenta che le famiglie sono disunite e poco accoglienti, ma non si lavora abbastanza per formare gruppi in cui i ragazzi si sentano bene e possano costruire la propria identità nelle acque tranquille della squadra. Non tutti sono amici, nel gruppo, e le differenze individuali talvolta pesano nel creare tensioni e malesseri. Occorre che il gruppo si doti di strumenti di manutenzione. Questo è il compito degli educatori: custodire l’idea che si sta percorrendo insieme un cammino comune, dove si sta facendo qualcosa che vale. Tenere vivo l’orgoglio di appartenere a un gruppo speciale. Dare una mano a mediare, delegando loro le responsabilità e dando fiducia ai ragazzi anche quando sbagliano”. “I bambini hanno diritto a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (art. 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

“L’arte è unica, insostituibile e universale, perché da sempre, attraverso di essa, l’uomo racconta quello che le parole non sanno e non possono esprimere. Così, rivolgendosi all’arte, egli assegna una forma alle emozioni, ai sentimenti e agli stati d’animo più profondi e inconfessabili che accomunano l’intero genere umano, confidando nella capacità dei suoi simili di comprenderlo fino in fondo” (cit.). L’arte è libertà, linguaggio, comunicazione, emozione, movimento e altro ancora, per cui favorisce lo sviluppo olistico del bambino (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Il bambino ha “bisogno” di arte e “diritto” all’arte, di cui ci sono espliciti riferimenti negli artt. 13 e 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

 

A ciò si aggiunge la valenza terapeutica dell’arte: “L’Arteterapia è uno strumento terapeutico che utilizza i materiali artistici per favorire l’esplorazione, l’espressione e l’integrazione dei vissuti corporei, psicologici ed emotivi. Gli elaborati creativi che vengono prodotti non hanno finalità tecniche/estetiche. Sono, bensì, utilizzati come strumento di ascolto, di comunicazione e di espressione del sé, grazie al contatto profondo con alcune sue parti che spesso rimangono inespresse” (cit.). L’arte, prima ancora di essere una forma di terapia, è la principale forma di espressione dei bambini e la scuola dell’infanzia dovrebbe essere la fucina di ogni arte. I bambini sono “artisti” ma gli adulti spesso li reprimono e li rendono stereotipati, conformisti o omologati, come quando nella scuola dell’infanzia si propongono pedissequamente schede fotocopiate, modelli da seguire o altro. Tra i tanti suggerimenti, per esempio, la pedagogista Serena Gaiani propone di incoraggiare bambine e bambini a liberare la propria creatività offrendo esperienze di esplorazione del colore blu, come il pittore Yves Klein. “Disegnare fa bene al cervello” (lo scrittore Luca Novelli).

 

Anche la musica è fondamentale per i bambini: li abitua all’ascolto, all’espressione, al muoversi, produce effetti benefici sulla loro salute psicofisica, favorisce l’esercizio dei loro diritti. Si potrebbe parlare di diritto dei bambini alla musica nell’ambito dei loro diritti all’arte e alla cultura. Gli esperti di musica Emiliano Toso e Tea Baldini spiegano: “Quando nasce una Vita, riusciamo a sentire una nuova musica che arriva sul pianeta Terra. Le cellule si incontrano e creano un piccolo miracolo nel grembo di una mamma che da quel momento si mette in ascolto e cerca una danza per entrare in connessione con la sua piccola creatura. La gravidanza è un periodo unico e delicato nella vita di una donna, caratterizzato da notevoli cambiamenti fisici ed emotivi. La musica può essere d’aiuto poiché fornisce un ambiente tranquillo e rilassante, aiutando a ridurre lo stress e l’ansia che possono essere associati a questo momento. Numerosi studi dimostrano che la musica può avere un effetto positivo anche sullo sviluppo fetale. Il battito cardiaco e i ritmi respiratori del feto possono sincronizzarsi con la musica, un processo che può favorire il loro sviluppo. Alcuni studi suggeriscono anche che l’esposizione alla musica prima della nascita può migliorare le capacità di apprendimento e di memoria del bambino. Inoltre, la musica in gravidanza offre un’opportunità unica per rafforzare il legame tra madre e figlio. Quindi, può essere visto non solo come un beneficio per lo sviluppo del bambino, ma anche come uno strumento per migliorare la salute emotiva e mentale della madre”.

 

Alla musica segue la danza. “La danza è una delle rare attività umane in cui l’uomo si trova totalmente impegnato: corpo, cuore e spirito. Per il bambino danzare è importante quanto parlare, contare o imparare la geografia. È essenziale per il bambino, nato danzante, non dissipare questo linguaggio sotto l’influsso di un’educazione repressiva e frustante” (il coreografo francese Maurice Béjart). La danza (etimologicamente da “tirare, stendere”) è ancestrale e universale, esiste dagli albori dell’umanità e dal grembo materno. “I bambini hanno diritto ad avvicinarsi all’arte, in tutte le sue forme: teatro, musica, danza, letteratura, poesia, cinema, arti visuali e multimediali” (art. 1 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Bisogna recuperare la “biodanza” insita nella vita e nell’infanzia.

 

Altrettanto importanti sono le fiabe (ricordando che esiste pure la fiaba terapia). Quando un bambino chiede “Mi racconti una storia?” è una richiesta di attenzione, di tempo, di sosta, di sguardi, di emozioni condivise, di espressioni... Raccontare una storia è srotolare quel filo indefinito che annoda e avvolge tutti sin dalla primordiale esigenza di raccontare e raccontarsi nei graffiti degli uomini primitivi. Italo Calvino: “Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano” (in “Fiabe italiane”, 1956). Da considerare anche quello che ha scritto Gianni Rodari nella “Grammatica della fantasia”, una specie di statuto in cui sono stati fissati i primi diritti dei bambini, in cui è stato il primo a parlare di “giocare con le parole” e di “matematica delle storie”. “I bambini hanno diritto a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). È quello che cerca di perseguire e far conseguire il “Premio Fabula”, un’iniziativa culturale nata nel 2010 nel comune di Bellizzi, in provincia di Salerno (da un’idea del campano Andrea Volpe, conduttore e autore radiotelevisivo) con il fine di stimolare la creatività dei ragazzi attraverso la scrittura (rammentando che è stata la più grande scoperta e conquista nell’evoluzione umana). L’obiettivo principale è dare ai ragazzi l’opportunità di riappropriarsi del momento creativo e di farlo lontano dalla tecnologia, facendo leva sulla loro naturale creatività e sulla valorizzazione dei contesti d’appartenenza da un punto di vista sia geografico sia sociale coinvolgendo le eccellenze e le professioni del territorio (mettendo in atto così l’art. 9 della Costituzione) fornendo ai giovani esempi sani e punti di riferimento. “I bambini hanno diritto ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

Un’altra iniziativa degna di nota è la “psicantria, ovvero “psicopatologia cantata”, una locuzione e un progetto nati, anche nel 2010, dalla collaborazione tra Gaspare Palmieri (in arte Gappa), psichiatra e cantautore e Cristian Grassilli, psicoterapeuta e cantautore, con la finalità di far conoscere i disturbi psichici e lo “psicomondo” in forma ironica attraverso la canzone. “Attualmente, il 15-20% della popolazione tra 0 e 18 anni manifesta un qualche tipo di difficoltà di carattere e di questi solo il 10-15% viene preso in cura da servizi, pubblici o privati, mentre il restante rimane impigliato in vario modo nella condizione psicopatologica. Tutto ciò rende evidente quanto sia importante dar voce all’infanzia e alla sofferenza infantile. L’obiettivo della psicantria è mettere al centro dell’attenzione – non solo degli specialisti, ma anche del lettore/ascoltatore comune – il tema dell’infanzia e delle possibili forme di sofferenze infantile, con la loro ricca, variegata e talora sorprendente espressività sintomatologica” (G. Palmieri e C. Grassilli in “La neuropsicantria infantile. Manuale cantato di psicopatologia dell’età evolutiva”, 2017). Tutti i bambini hanno un loro “psicomondo” e hanno bisogno di strumenti per scoprirsi ed essere scoperti tenendo conto che molti disturbi (e pregiudizi) nascono da emozioni inespresse o represse. “I bambini hanno diritto a sperimentare i linguaggi artistici in quanto anch’essi saperi fondamentali” (art. 2 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

Bisogna richiamare quello che scrive Alberto Pellai al n. 7 del suo Decalogo per proteggere i bambini (2018): “Diritto ad essere educati alla bellezza. Bellezza delle parole, bellezza delle immagini, bellezza delle relazioni, bellezza della natura. Città grigie e inquinate, canzoni e film pieni di situazioni e parole ostili e volgari; musei, cinema e teatri con costi elevatissimi per genitori che ci vogliono accompagnare i figli: come possono i bambini imparare ad amare il bello quando non è loro reso accessibile e disponibile?”.

 

I bambini: i colori dei loro sorrisi, delle loro guanciotte, delle loro emozioni, della loro presenza, della loro esistenza, i colori della tavolozza della vita. 

Coppia o cappio?

Sintesi: Una coppia deve darsi e farsi decalogo d’amore

Abstract: L’articolo ricerca il senso della coppia evidenziando fraintendimenti che rischiano di minare l’amore

 

Sempre più coppie (di coniugi, di partner o di genitori) sono disfunzionali perché non si è colto o coltivato il vero senso di amore e quello di coppia.

“L’amore non è fusione ma unione; le persone non vi si confondono ma si sublimano” (cit.): così dall’amore di coppia a quello genitoriale.

“Il contrario dell’amore è il possesso” (cit.). Voce del verbo amore è libertà: liberarsi e liberare. Amare è essere liberi di e liberi da e soprattutto liberi con e liberi per.

 

Kahlil Gibran scriveva: “Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”. Così la vita di coppia, la vita in famiglia.

“A volte, certe storie d’amore non dovrebbero nemmeno cominciare perché portano sin dall’inizio i segni di una tragedia” (dalla trasmissione televisiva “Amore criminale”). L’amore non è né giustificazione né sopportazione ma “comunione” (dal latino “cum”, con, insieme, e “munus”, parola polisemica che significa da “regalo” a “impegno”). La vita di coppia non deve essere mai un ripiego, innanzitutto per rispetto di se stessi. Spesso ci si butta in storie sbagliate, oggettivamente sbagliate, viste chiaramente tali da tutti. E, poi, lo si riconosce solo dopo, quando ci si separa e si sente dire: “Me lo dicevano tutti che non era per me, però...”.

Bisogna fare attenzione a non confondere l’amore con altro, perché si rischia di compromettere il benessere della singola persona, della coppia e dell’eventuale famiglia. L’amore non è soccorso ma sostegno, non è assistenzialismo ma assistenza, non è convenienza dell’altro ma convivenza nell’altro, non è compatimento ma compassione. “Quante persone scambiano l’amore per il soccorso, quanti “infermieri” e quante “crocerossine” corrono in aiuto scambiando l’amore (che in sé porterebbe il farsi carico delle pene e delle offese altrui, ma in modo adulto) con un assistenzialismo che in realtà foraggia il proprio ego, l’eroe o l’eroina che con i loro atti salvano l’altro dal pericolo e dal dolore” (don Fabio Rosini). Non si tratta di sano egoismo ma di autostima e rispetto di sé.

 

“Una coppia, ad esempio, sin dal fidanzamento, dovrebbe sempre avere il decalogo delle cose che fanno bene al loro rapporto e dalla cura e dall’assiduità a queste cose buone sorgeranno dei genitori saggi, sereni, rasserenanti” (don Fabio Rosini). Una coppia deve darsi e farsi decalogo d’amore e di vita insieme, quell’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ.. La coppia può essere sintonica o distonica: è frutto della scelta iniziale e, soprattutto, di quella quotidiana ricordando che comporta conseguenze anche nella vita degli altri, in primo luogo dei figli.

Lo studioso gesuita Giovanni Cucci afferma: “È proprio di chi è innamorato vedere le cose attorno a sé con occhi nuovi; esse rimangono le medesime di prima, ma è lo sguardo a essere differente, uno sguardo pacificante, agli antipodi dell’ansia e della paura”. L’amore di una coppia comincia con uno sguardo attento e finisce quando lo sguardo si distrae, si distoglie, si distorce verso altro. Quello sguardo da cui deriva etimologicamente il “rispetto” (dal verbo latino “respicere”, “guardare di nuovo, guardare indietro”) che è alla base di ogni relazione.

Un’immagine significativa di coppia è quella descritta dallo scrittore Erri De Luca: “Non sono al tuo fianco, io sono il tuo fianco. Sei la parte mancante che torna da lontano a combaciare” (in “Il giorno prima della felicità”): quello che ci si dovrebbe dire e soprattutto vivere in una coppia. Non è tanto importante esprimere il “ti amo” quanto vivere il “ci amiamo”: uno più uno non fa due, ma fa coppia che è una nuova entità fatta di due che restano due. Una lezione di educazione sentimentale, ancor prima di quella sessuale. Non ci si sposa (o, comunque, si fa una scelta di vita di coppia) solo per avere qualcuno accanto nel letto o a tavola, ma soprattutto per averlo accanto nella vita. L’educazione sentimentale e sessuale non è fatta di lezioni di scuola, ma di scuola di vita.

E una delle manifestazioni più rispettose di amore nella coppia, perché non co-stringe né opprime è la tenerezza, come scrivono Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà: “La tenerezza è elemento fondante di un rapporto di coppia. E se la si trascura o dimentica, va riscoperta, pena l’inaridirsi del rapporto. In una coppia è importante ricavarsi ogni giorno un momento per una parola gentile, una carezza, uno sguardo d’amore per l’altro: tutto ciò nutre la tenerezza. Cominciare a coltivare uno sguardo di meravigliata tenerezza su ciò che l’altro è, nel mistero della sua persona, nella complessità del suo corpo, nel mistero profondo della quotidianità: tutto ciò porta a riconoscere la profonda bellezza abitata dall’altro”. La tenerezza dà contenuto agli obblighi coniugali di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ., in particolare a quello dell’assistenza morale e materiale. Quella tenerezza la cui mancanza causa una sincope della comunicazione e della comunione tra coniugi e in molti casi la rottura definitiva della coppia.

 

“Prendimi per mano e insegnami ad imparare di nuovo quello che ho disimparato [...] prendimi per mano e dimostrami che non è finita” (cit.). Quello che si dovrebbe comunicare una coppia nei momenti di crisi senza affrettare alcuna conclusione.

 

“Capire coloro che parlano piuttosto che le parole” (il filosofo gesuita Gaetano Piccolo): la vera comunicazione da stabilire nella coppia, in famiglia. Perché la comunicazione è il collante di ogni coppia, dalla coppia di amici a quella di colleghi di lavoro.

“Nulla può essere unico e completo se prima non è stato lacerato” (cit.). Ogni emozione è una lacerazione perché bisogna aprirsi agli altri per completare se stessi: così la vita di coppia e quella familiare passano di lacerazione in lacerazione, dal rapporto sessuale al parto, dalla crisi al lutto.

 

“Noi due piangiamo continuamente e poi mettiamo le nostre lacrime nel frigorifero in quei contenitori del ghiaccio” (dallo spettacolo teatrale “Chi ha paura di Virginia Woolf” su incomunicabilità e conflittualità di coppia). In molte coppie si piange tanto, ma non ci si compiange affatto. Eppure ci vorrebbe poco per comunicarsi la reciproca sofferenza e soffrire di meno e insieme.

La peggiore forma di sterilità di coppia non è quella procreativa, ma quella generativa d’amore, quell’amore diffusivo e pervasivo. Quelle coppie chiuse in loro stesse fino ad incistarsi rimanendo crisalidi che non spiccheranno mai il volo come farfalle, anche se e quando hanno figli. La mancanza della vera educazione sentimentale, relazionale e sessuale segna nel profondo e per sempre.

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, consulenti familiari, precisano: “[…] il principio della vita: ogni coppia […] è chiamata a generare “figli divergenti” (termine tecnico per dire tutti i modi di uscire da sé stessi, di non stare centrati solo sui propri bisogni)”. Da tutto il Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, ed in particolare dal settimo enunciato, emerge che precipuamente i genitori devono far sì che i figli siano individui (etimologicamente “indivisibile” e, pertanto, tutto ciò che ha una personalità, una esistenza tutta sua speciale) ma non individualisti: “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali”.

 

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Non deve esserci confusione: una mamma e un papà non devono atteggiarsi o comportarsi come fidanzati affettuosi o come amici. Un figlio ha bisogno di un genitore che faccia il genitore. Non chiede niente di meglio”. “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare” (art. 6 comma 2 legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”). Ogni figlio può essere considerato adottivo perché è adottato, cioè “preso per sé, accettato, fatto proprio”, nella vita di una coppia e ogni figlio ha diritto a una coppia di genitori idonei.

I figli non appartengono ai genitori ma sono affidati ai genitori per cui non vanno né coinvolti né contesi nelle sempre più frequenti crisi o rotture delle coppie (come esplicitato nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, ottobre 2018). Questioni che continuano anche sulla cosiddetta PAS, Sindrome d’alienazione parentale.

 

La giurisprudenza italiana di merito (ma non la Cassazione), in maniera frammentaria, riconosce la PAS, tra cui il decreto n. 778/2015 I sez. civile del Tribunale di Cosenza. La PAS non è menzionata espressamente nel DSM V (edizione 2013, traduzione italiana 2014) - Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali -, ma vi è delineata con vari riferimenti, tra cui “disturbi relazionali genitore-figlio”. Il riconoscimento della PAS non deve diventare, però, motivo di inasprimento dei rapporti già incrinati tra gli adulti ma motivo di percezione e riflessione casi dei bambini “triangolati” nelle crisi di coppia, perché non è una patologia dei bambini ma una condotta degli adulti che continuano a rivelarsi immaturi ed egoisti.

 

Quegli stessi adulti immaturi ed egoisti che non consentono ai figli di avere relazioni regolari e costruttive con i nonni. “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni” (art. 317-bis comma 1 cod. civ. “Rapporti con gli ascendenti”, articolo sostituito dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Il termine “ascendenti”, per quanto opinabile e tipicamente italiano, è significativo della pluridimensionalità delle relazioni familiari. La coppia genitoriale deve maturare nell’ottica trigenerazionale che è una di quelle dimensioni in cui covano i peggiori conflitti e su cui si basa altresì la terapia familiare trigenerazionale.

 

Occorre una consapevolizzazione sul senso di “coppia” che è diverso da “paio”: la coppia è formata da due esseri che, pur con e nelle loro differenze, si uniscono per il medesimo obiettivo. Si è membri di una coppia ma non ci si annienta nella coppia, non a caso nel codice civile non si parla di “coppia” ma si sottolinea “ambedue” o “entrambi”. Secondo l’argentino Salvador Minuchin, esperto di terapia familiare, per realizzare i compiti specifici che spettano loro, i coniugi necessitano di capacità di complementarità e reciproco accomodamento, cioè devono sostenere il modo d’agire dell’altro in molti campi, cedendo parte del loro individualismo per riguadagnarlo nel rapporto di coppia.

 

L’amore, qualsiasi amore, deve essere liberante e librante e non vincolante, costruttivo e creativo e non ostruttivo o distruttivo della singola persona.

Maria Montessori: metodo o pedagogia?

La scuola italiana trascura o ignora la pedagogia, come più volte segnalato anche dagli esperti contemporanei tra cui il pedagogista Daniele Novara, dimenticando che l’Italia è il Paese nativo di Maria Montessori e di altri pedagogisti che sono sempre attuali ma inascoltati. La scuola, purtroppo, continua a essere adultocentrica o “docente-centrata”, prospettiva che è emersa anche durante la pandemia con l’istituzione della DAD o dei LEAD (opinabili già gli acronimi). Una metodologia ben lontana da quanto scritto in varie fonti, per esempio l’art. 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura: “I bambini hanno diritto a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni”.

 

Maria Montessori, medico, diventata mamma fuori dal matrimonio andando contro il perbenismo del tempo, si fece mamma di tutti i bambini di cui si prendeva cura. Fondatrice di un “metodo” educativo, basato sulla manualità, materiale sensoriale, meticolosità, tutto a misura dei bambini, mantenere una giusta distanza dai bambini che devono essere protagonisti e artefici di quello che fanno e vivono: come dovrebbe essere e fare ogni educatore.

“Aiutami a farlo da solo”, il motto in cui è concentrato il pensiero pedagogico di Montessori: il principio e il fine di ogni buon intervento educativo, genitoriale e scolastico.

Daniele Novara scrive: “Le mamme e i papà per Maria Montessori stanno, infatti, alla base delle conquiste e degli apprendimenti infantili. Rappresentano il punto di riferimento essenziale per l’educazione dei figli. A loro è dedicata la sua famosissima frase «Aiutami a fare da solo», cioè l’invito ai genitori a creare le condizioni perché i bambini non debbano aver bisogno di loro ma possano usare, età per età, tutte le proprie risorse. La sua fu una vera rivoluzione. […] Il bello della sua pedagogia è il concetto della valorizzazione dell’ambiente: i bambini imparano se si predispongono situazioni adeguate nelle quali possano fare esperienze. Anzitutto, quindi, si cominciano a costruire spazi della casa a misura dei piccoli, dove questi possano prendere il sapone da soli, lo spazzolino dei denti da soli, le mutande da soli e tutto il resto senza dover continuamente chiedere ai genitori. La casa di Maria Montessori, insomma, è un ambiente dove si muovono in autonomia e trovano autonomamente i materiali per i loro giochi, per le loro attività di scoperta, per le loro esplorazioni”. La pedagogia montessoriana è basata su: autonomia, attenzione, attrezzi, adeguatezza, attività, ambiente di apprendimento. Principi che si trovano espressi in altro modo nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, articolo relativo all’educazione.

 

Fondamentali e attuali alcuni principi espressi da Maria Montessori: il bambino nei primi anni di vita è un “embrione spirituale”; la “mente assorbente” del bambino; “casa dei bambini” (a misura di bambino e improntata al minimalismo); “educazione alla pace” (educazione e pace, educazione è pace). La pedagogia montessoriana non è valida solo per le scuole ma anche per l’educazione in famiglia, ancor di più nei casi di conflittualità tra i genitori che dovrebbero tener conto della particolare natura dei bambini nelle loro scelte affinché queste non diventino scempi avverso i figli.

Nella vita di ogni giorno chi è lumaca e chi lumachicida, come purtroppo si fa con i bambini quando si annienta tra l’altro la bellezza della lentezza, castrandoli o tarpandoli (genitori valutanti che temono errori, fallimenti e cadute dei figli, scuola competitiva e valutante…). I bambini, proprio perché tali, sono forieri di risorse (soprattutto emozionali), quello che Maria Montessori chiamava “segreto dell’infanzia” e che si può cogliere osservandoli: i bambini stringono abbracci improvvisi da dietro, esternano con trasporto affermazioni perentorie come “Lo sai che ti voglio bene!”, si aggrappano con fiducia alle mani degli adulti per essere accompagnati dagli stessi o per portare gli adulti verso le loro scoperte e nel loro mondo di primigenie emozioni. “Spontaneità” deriva dal latino “spons”, “volontà”, è perciò la spinta, la vitalità insita nella vita stessa: la spontaneità dei bambini è didascalia di vita. “Ogni fanciullo ha il diritto al rispetto dell’integrità fisica e morale della sua persona” (art. 8.19 Carta europea dei diritti del fanciullo, approvata dal Parlamento europeo con risoluzione A30172/92).

Daniele Novara aggiunge: “In realtà, come ha ricordato tante volte anche Maria Montessori, il bisogno di ordine dei bambini è connaturato alla loro crescita: trovare le cose al loro posto, recuperare i giocattoli dove sono sempre stati, avere quel senso di sicurezza che è dato dal sapere che il mondo, il mattino dopo, non subirà scossoni particolari”. I bambini hanno bisogno di ordine, hanno diritto all’ordine, nella loro casa, nella loro famiglia (e non vedere cambiare continuamente partner accanto ai loro genitori), nella cameretta, dei letti rassettati, sulla tavola, in classe, per essere educati all’ordine, per acquisire il dovere dell’ordine, il rispetto dell’ordinamento anche giuridico, per essere avviati al lavoro (“ordine” è concettualmente la disposizione delle cose nel mondo fatta dalla natura). “Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). A proposito di “armonioso sviluppo”, anche in questo Maria Montessori è stata un’antesignana perché mirava all’armonia universale e all’educazione cosmica: tutto ciò che vuol far recuperare l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

I bambini hanno diritto all’esperienza. La consulente educativa Silvia Iaccarino precisa: “La Montessori diceva: “Il bambino è fatto dal materiale” e con questa affermazione intendeva sottolineare l’importanza di fornire ai piccoli i “giusti” stimoli attraverso degli oggetti in grado di catturarne l’attenzione e favorire la concentrazione. Inoltre, va evidenziato come il bambino in età prescolare apprenda attraverso il canale corporeo, coinvolgendo tutto se stesso nell’esperienza ed acquisendo i dati sulla realtà che lo circonda e su di sé attraverso i sensi. Pertanto, implicare nell’esperienza l’uso di più sensi è ciò che, in maggior misura, favorisce l’apprendimento e la costruzione del Sé”. I bambini hanno bisogno di esperienze tridimensionali e non bidimensionali davanti a schermi.

 

“Il principio base dell’educazione è l’aiuto alla vita, e l’educatore deve far sviluppare le potenzialità del fanciullo: la vita stessa svolgerà il suo compito di «costruttore dell’uomo». A tale scopo va favorita la libertà dei bambini: a loro non va imposto nulla; essi stessi devono scegliere come giocare, che cosa fare. L’educatore li aiuta nel preparare il materiale didattico e nell’accompagnarli nella crescita”. Questo quanto si ricava dal pensiero di Maria Montessori che ha anticipato la nuova cultura dell’infanzia e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui il testo dell’art. 6: “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita. Gli Stati parti si impegnano a garantire nella più alta misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”.

“Alla tradizionale disciplina dell’immobilità del bambino a scuola la Montessori oppone la «disciplina della libertà» («No ai banchi!»): «disciplina» nel senso che un individuo «è padrone di se stesso e quindi può disporre di sé ove occorra seguire una regola di vita». Essa comporta quindi il rispetto degli altri, il mantenimento dell’ordine, il muoversi senza dar fastidio ai vicini. Originale anche l’educazione al silenzio, che aiuta alla concentrazione e all’attenzione. Sono aboliti del tutto i premi e i castighi. Nulla viene trascurato per ciò che riguarda l’alimentazione, l’igiene, l’abbigliamento, l’arredo scolastico, le scatole per i materiali e i gessi colorati, i piccoli lavori, i quadri alle pareti. Un’altra delle scoperte è che «l’uomo si costruisce lavorando». Il lavoro è fondamentale per il bambino, e la manualità favorisce lo sviluppo dell’intelligenza” (cit.). La pedagogia montessoriana è in linea con l’intera Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dalla cura dell’ambiente circostante il bambino: se l’ambiente è curato diventa più facile e diretto educare il bambino ad averne cura (art. 29 lettera e Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

“Con il metodo Montessori si capì che per far passare dei contenuti era necessario lavorare insieme ai bambini, stimolando la loro mente grazie a una maggiore libertà di azione che permettesse loro di fare tentativi e arrivare a delle soluzioni, altro concetto alla base del metodo. Con questo metodo, Maria Montessori, cambiò radicalmente la concezione dell’educazione dei bambini” (cit.). Montessori asseriva che il suo non era un metodo ma un aiuto ai bambini, un approccio, per cui gli insegnanti e gli educatori devono avere lo stesso atteggiamento, ovvero modulare il loro intervento in base ai bambini e al singolo bambino e non in base al loro punto di vista.

Montessori ha individuato i “periodi sensitivi” che corrispondono alle fasi di sviluppo durante le quali i bambini sono particolarmente predisposti e interessati ad assorbire una certa abilità. Alla

prima infanzia (fase evolutiva relativa all’età da asilo nido e ingresso nella scuola dell’infanzia) corrisponde il periodo sensitivo del movimento, che appare fin dalla nascita ed è prevalente fino almeno ai 4 anni, per cui gli adulti di riferimento devono offrire opportunità di movimento che rispondano correttamente alle esigenze dei bambini, dalla nascita fino ai 4 anni. Da ricordare che movimento ed emozioni sono strettamente correlate (intelligenza emotiva).

“Il percorso montessoriano in Italia, a differenza che negli altri Paesi Europei ed extraeuropei, è poco diffuso ed è riconosciuto solo per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, obbligando i genitori e i ragazzi a rinunciare al proseguimento di una forte scelta metodologica. Da anni è attiva una sperimentazione della scuola secondaria di primo grado a indirizzo Montessori, che ha ottenuto diversi decreti ministeriali di autorizzazione fino a diventare una sperimentazione nazionale nel 2021. In questi anni è aumentato l’interesse di diverse scuole nei confronti dei principi Montessoriani. L’attualità del metodo della grande pedagogista si può riscontare nella straordinaria importanza dell’autoeducazione, della libera scelta, delle interconnessioni delle discipline” (cit.). Nella scuola (pubblica) non si dovrebbe richiedere agli insegnanti la specializzazione in qualche metodo ma ogni scuola dovrebbe accogliere e applicare i principi validi e effettivi dei vari metodi proposti. Tra i principi montessoriani più incisivi e più disattesi oggi: non usare le cattedre; curare l’ambiente circostante (basti guardare gli edifici scolastici); far usare le mani; far svolgere in autonomia le attività.

 

Maria Montessori nella prima metà del XX secolo e, poi, Mario Lodi nella seconda metà, entrambi sono andati controcorrente rispetto a un sistema consolidato, da quello scolastico a quello adulto, sostenendo la “vera” centralità del bambino che è fondamentale per il “vero” benessere del bambino, al quale si dà tutto ma non sempre ciò che è adeguato o che lo faccia sentire adeguato. 

Semplicemente famiglia

Abstract: L’articolo si propone di fare luce su come e quanto ciascuna famiglia si inserisca nelle nostre comunità con la sua unicità, come sistema interpersonale e intrapersonale

La famiglia: cellula, tessuto, organo, corpo sociale. È quello che si ricava dalla Costituzione, dalle fonti normative internazionali e dalle scienze umane.

La famiglia era ed è ogni giorno attaccata da più parti, a cominciare dalla pubblicità che propaganda solo bellezza esteriore, sesso spiccio e fatica zero. La famiglia è sempre stata problematica e privilegiata, uno spazio esclusivo e, al tempo stesso, inclusivo, un luogo che diviene, spesso, “nonluogo”, privo di una propria identità e da cui si transita solo senza fermarsi e conoscersi più di tanto.

La famiglia è il luogo di pre-parazione alla vita: coltivare e condividere l’amore per moltiplicarlo, il reciproco rispetto pur conservando le proprie differenze, la serena e paziente attesa, la sana autorità con cui credere, esprimere, vivere e trasmettere convinzioni e valori. Così la famiglia è “società naturale” (art. 29 comma 1 Cost.): “società”, unione di soci, compagni, coloro che seguono, che accompagnano, “naturale”, dal verbo nascere e, quindi, capacità di generare.

Molto interessante la rappresentazione grafica adottata dalle Nazioni Unite per ogni azione sulla famiglia: all’interno di un cerchio, verde scuro (come gli alberi sempreverdi), ben definito a rappresentare il mondo, è rappresentato “un cuore coperto e protetto da un tetto, collegato ad un cuore più piccolo, a rappresentare la vita e l’amore in una dimora dove ciascuno trova calore, cura, sicurezza, unità, tolleranza e accettazione […]. Il disegno è aperto, a significare che la continuità è collegata ad una certa dose di incertezza. Il colpo di pennello che completa la parte aperta del tetto sta a simbolizzare la complessità della famiglia” (cit.). Famiglia e casa, famiglia è casa: tetto e affetto, appartarsi ma al tempo stesso aprirsi, tratti comuni con altre famiglie e proprie peculiarità.

Una delle tante novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia nel testo degli artt. 143 e ss. del codice civile è la locuzione “bisogni della famiglia” nel 3° comma dell’art. 143. La famiglia non è quella dei propri sogni o per realizzare i propri sogni ma quella che si costituisce e si vive nella quotidianità ed esprime la sua esistenza ed essenza. Nel testo previgente, invece, prevaleva una mentalità più “individualistica” per cui si diceva che “il marito è il capo della famiglia” (art. 144 cod. civ. fino al 1975) e “ha il dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione alle sue sostanze” (art. 145 cod. civ. ante 1975). La famiglia non è intesa più come una sistemazione personale ma un sistema interpersonale e intrapersonale.

Il sociologo Pietro Boffi scrive: “Le famiglie, con i loro legami, i loro progetti di vita, la loro funzione riproduttiva, educativa, di trasmissione di valori, infatti non sono un optional. Sono lo snodo fondamentale attorno al quale si generano le identità e i progetti di vita dei singoli, e la capacità di tenuta di tutto il sistema, anche nei suoi risvolti socio-assistenziali. Il loro venir meno, il loro essere ridotte a micro-unità, rende estremamente difficile, se non impossibile, l’esercizio di queste funzioni. Pensiamo semplicemente alla questione anziani: siamo il Paese, insieme al Giappone, con il maggior numero di persone anziane, delle quali si fanno carico in via quasi esclusiva proprio le loro famiglie: ma le generazioni dei figli unici come faranno?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia è scuola di vita, di diritti, di solidarietà (art. 2 Cost.) e con l’aumento dei figli unici o delle famiglie monoparentali o altre situazioni simili vengono meno questi presupposti e si determinano faglie nel tessuto sociale.

Dal primo Rapporto internazionale del Family International Monitor (progetto di ricerca internazionale nato nel dicembre 2018 e presentato a giugno 2020) si ricava che in ogni nazione le relazioni familiari sono la più importante risorsa per affrontare le tensioni e le difficoltà interne ed esterne nella vita quotidiana delle famiglie, ma la loro importanza è ancora più decisiva per le persone più vulnerabili e marginali, a conferma della “fondamentalità” della famiglia, nonostante crisi e lacerazioni, come riconosciuta nelle fonti di diritto internazionale e dalle scienze umane e obiettivo anche dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Le ferite delle famiglie “possono essere risanate se saremo capaci di rivitalizzare la comunità. Esperienze comunitarie come il cohousing, ancora poco diffuso ma ricco di potenzialità, l’impegno nel volontariato di quartiere e vicinato, l’impegno per il welfare territoriale, l’affidabilità di tante “nuove famiglie”, il supporto reciproco che si sviluppa tra coppie giovani con figli di una stessa scuola o di uno stesso quartiere, sono tutti segnali di ricomposizione del vissuto familiare su base comunitaria che, se opportunamente messi a fuoco e sostenuti, possono contribuire in maniera determinante alla ricucitura della realtà familiare ed al superamento delle sue ferite” (la sociologa Carla Collicelli, in “Dalle relazioni ferite alle relazioni risanate: la solidità dell’amore”, 2020). Se la famiglia tornasse ad essere tale si avrebbe la piena attuazione dell’art. 2 della Costituzione e si realizzerebbe la cosiddetta ecologia delle relazioni: esercizio dei diritti inviolabili dell’uomo, formazione sociale per eccellenza, svolgimento della personalità, adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà.

Tra le tante famiglie ferite, lacerate quelle dei detenuti, come scrive Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia: “La perdita di una figura di riferimento importante ricade pesantemente su chi, fuori, deve lottare ogni giorno per la

sopravvivenza propria e dei propri figli, su chi deve far da madre e padre a piccole vite in crescita, deve “tamponare” esigenze di ogni tipo soprattutto emotive e affettive. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal giudizio che la famiglia di un detenuto vive sulla propria pelle. La discriminazione davanti a storie di vita così pesanti, ma anche la paura che ognuno di noi può sperimentare davanti a una realtà sconosciuta e critica, chiude l’intera famiglia in una solitudine relazionale che spesso pesa ancora di più della detenzione stessa” (in un articolo del 7 febbraio 2020). “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo” (art. 9 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Alessandra Bialetti aggiunge: “[...] Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé. [...] Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio. “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” (art. 1 legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”): questo diritto non deve essere trascurato in caso di bambini e ragazzi con genitore/i detenuto/i, casi in cui la comunità dovrebbe farsi ancor di più “famiglia di famiglie”. Si ricordi, tra l’altro, la formulazione dell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Gli Stati parti rispettano la responsabilità, i diritti ed i doveri dei genitori o, all'occorrenza, dei membri della famiglia allargata o della comunità, secondo quanto previsto dalle usanze locali, dei tutori o delle altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di impartire a quest'ultimo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione”.

La famiglia è anche un soggetto economico perché luogo di economia ed economie e fonte di esternalità, effetti negativi o positivi su altri soggetti, dalla scelta della scuola privata o pubblica per i figli ai costi sociali ed economici di separazioni o divorzi più o meno conflittuali. La rilevanza economica della famiglia è presa anche in considerazione nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: “Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito, fornendo un servizio pubblico, infrastrutture e politiche di protezione sociale e la promozione di responsabilità

condivise all'interno delle famiglie, conformemente agli standard nazionali” (punto 5.4). Rilievo alla famiglia è stato dato pure nel 6° principio del Pilastro europeo dei diritti sociali.

“[…] al di là di analisi sociologiche, politiche o economiche, una cosa certa è che, in questo contesto, la famiglia soffre, tra le altre cose, soprattutto di solitudine, e se la famiglia soffre, soffrono di più gli ultimi, gli emarginati. Nessuna istituzione, infatti, può aiutare, come le famiglie, i poveri, gli orfani, gli immigrati in modo continuativo e non emergenziale” (l’avv. Vincenzo Bassi in un articolo su L’Osservatore Romano, l’8 settembre 2020). Nell’art. 29 della Costituzione si parla di “diritti della famiglia” e nelle fonti di diritto internazionale si ribadisce l’aiuto alla famiglia o la protezione della famiglia (per es. l’art. 33 par. 1 della Carta di Nizza recita: “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”) ma nella realtà avviene sempre meno perché la “macropolitica” è in altro occupata o preoccupata, per cui si sviluppano forme di “solidarietà interfamiliare”.

“Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici, ma appena c’è occasione si azzannano senza legge” (lo scrittore Erri De Luca). Quant’è tristemente vero soprattutto per gli affari di famiglia, dal divorzio alla divisione di un’eredità: l’uomo ha fame di amore e famiglia, tutto il resto è solo surrogato.

L’amore, dalla letteratura al codice civile

Sintesi: In una coppia non conta la gemellarità ma la reciprocità

Abstract: Il contributo propone una lettura degli articoli del codice civile sulla relazione coniugale partendo da alcuni spunti letterari

“L’anima gemella è il sogno di tutti, anche se nessuno sa cosa veramente significhi vivere con un’anima uguale alla propria. Le storie più belle di anime gemelle, che si incontrano in genere in letteratura, hanno avuto breve durata e una fine drammatica: così almeno è stato per Paolo e Francesca, per Tristano e Isotta, per Romeo e Giulietta… L’incontro di due anime gemelle rischia di rendere la coppia “sterile”, perché l’uno basterebbe all’altra e viceversa, col risultato che entrambi cadrebbero nell’inevitabile chiusura al mondo e nell’impossibilità di perseguire fini evolutivi” (lo psichiatra Luigi Baldaschini). In una coppia non conta la gemellarità ma la reciprocità, come si evince dalla disciplina dei diritti e doveri reciproci dei coniugi contenuta nell’art. 143 cod. civ..

Nella letteratura, dai tempi di Dante ai giorni nostri, si trovano parole più piacevoli o romantiche per descrivere gli obblighi reciproci tra coniugi, in particolare quelli enunciati in modo prosaico nell’art. 143 comma 2 cod. civ., che non sono limiti alla libertà individuale e coniugale ma i pilastri del progetto di vita coniugale, il cui presupposto è la consapevolezza che la realizzazione di qualsiasi progetto comporta tempo e fatica. Significative le parole dello scrittore Bruno Ferrero “Una persona che ti sia fedele più di quanto lo è per la propria sicurezza. Una persona che abbracci la bellezza del sacrificio, l’abbandono della forza e il pericolo della vulnerabilità. In altre parole, una persona che vuole trascorrere la sua vita solo per crescere in quest’amore folle e pericoloso con te, e con te solo” (da “Il segreto per un matrimonio felice”).

Ancora B. Ferrero: “L’attenzione chiara, semplice, autentica all’altro è amore allo stato puro. Ed è il dono più prezioso che possiamo fare a un’altra persona”. L’attenzione è uno dei contenuti dell’assistenza morale e materiale tra coniugi di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ..

“Tutto ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente” (il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein). Alla base dei quattro fondamentali doveri coniugali ex art. 143 comma 2 cod. civ. vi è la comunicazione, etimologicamente “insieme una prestazione, un onere, un peso”.

Incisiva la precisazione dello scrittore Alessandro D’Avenia: “La parola passione indica il trasporto verso qualcosa o qualcuno e, al tempo stesso, la capacità di soffrire per quel qualcosa o qualcuno. […] Chi non ha passioni perde il senso della vita, perché non si misura mai con l’amore e finisce con l’annoiarsi. Passione non coincide con piacere, ma con amore: se non siamo disposti a impegnarci e patire per qualcosa o qualcuno, non l’amiamo”. Molte coppie falliscono e molti amori finiscono perché non si dà lo stesso significato a passione e non si ha lo stesso senso delle passioni.

L’amore tra un uomo e una donna non può essere esclusivo o occlusivo altrimenti diventa asfissiante, arrancante sino all’essere agonizzante, ma deve essere inclusivo in modo tale che ci sia un passaggio del testimone nella staffetta della vita. L’amore non è qualcosa di astratto, che va e viene, è sentirsi legati (obblighi), reciprocità, assistenza, quello che giuridicamente (etimologicamente il diritto congiunge) è disciplinato per i coniugi nell’art. 143 cod. civ..

Anche Rainer Maria Rilke: “[…] l’amore che consiste in questo: che due solitudini si proteggano, si limitino e si inchinino l’una innanzi all’altra” (da “Lettere a un giovane poeta”): così l’assistenza morale e materiale tra coniugi, di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ.. Si trascura l’amicizia coniugale dimenticando quella che può sembrare una tautologia: amore nell’amicizia, amicizia nell’amore. Colui o colei che si ha accanto nella vita non è accompagnatore o accompagnatrice, ma compagno o compagna di vita. Quando si fa un viaggio insieme non lo si fa solo per usare lo stesso mezzo di trasporto (per motivi di opportunità o convenienza reciproca per economizzare le spese), ma perché si condividono la gioia e la fatica di farlo, il motivo per cui lo si fa, la meta da raggiungere, il condividere quello che diventerà un ricordo comune e quindi comunicazione. Questo anche il senso di quel “contribuire” di cui all’art. 143 comma 3 cod. civ..

In un altro testo si legge di Rilke: “L’essenza dell’amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l’altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il massimo che gli consentono le forze”. Così l’amore di coppia, ancor di più l’amore genitoriale: non desiderare l’altro per sé ma desiderare per l’altro il meglio di sé.

“[…] nulla e nessuno ci può risarcire di ciò che abbiamo perduto, neppure coloro che sono colpevoli di quelle perdite, né quelli che direttamente o meno ne sono stati l’origine o la causa, e alla fine, quando tutti i calcoli sono stati fatti e abbiamo chiaro chi ha tolto cosa e a chi e perché, […] l’unica cosa che conta è questo: che ci possiamo ancora abbracciare, senza sprecare più nemmeno per un istante la straordinaria fortuna di essere ancora vivi” (da “Eva dorme” di Francesca Melandri). Assistenza morale e materiale tra coniugi (art. 143 comma 2 cod. civ.): superare rancori e rinfacci pensando a quello che è ancora vivo e si può alimentare (biofilia) e non a ciò che è perduto e può appesantire il cammino come una zavorra (necrofilia).

“Il tatto è l’ultimo dei sensi ai quali sto attento. Eppure è il più diffuso, non sta in un organo solo come gli altri quattro, ma sparso in tutto il corpo. Mi guardai la mano, piccola e tozza e pure un poco ruvida. Chissà cosa avrà sentito nella sua. Non potevo chiedere, poteva essere per sbaglio una domanda d’amore” (Erri De Luca in “I pesci non chiudono gli occhi”). Tatto e contatto è la prima forma di assistenza morale e materiale (art. 143 comma 2 cod. civ.) alla base dell’intesa sessuale di una coppia.

Il filosofo Adriano Fabris precisa: “Ci sono parole che dicono aspetti importanti della nostra vita – esperienze, incontri, emozioni – di cui rischiamo di fraintendere o, peggio, di perdere il significato. Una di queste è la parola «amore». L’amore, oggi, è confuso soprattutto con il desiderio e con il suo appagamento. Si parla di eros, di erotismo. Niente di male, ben inteso. Il desiderio è una tensione caratteristica dell’essere umano, che lo indirizza verso obiettivi importanti. Lo diceva già il filosofo Platone, cercando anche di porre rimedio a ciò che del desiderio risulta comunque un difetto: il fatto che esso non mette ordine tra i suoi obiettivi, e dunque richiede di essere guidato”. Il legislatore ha fornito una guida per l’amore coniugale (compreso il desiderio sessuale) negli artt. 143 e 144 cod. civ. e per l’amore genitoriale nell’art. 147 cod. civ..

Peculiare è la formulazione dell’art. 144 che dà la “misura” dell’amore e che è una disposizione sempre attuale. Si usa il verbo “concordare”, che è differente dallo scendere a compromessi come si usa dire, l’espressione “esigenze” e non bisogni e si dispone di tener conto delle esigenze di entrambi e di quelle preminenti della famiglia stessa, per cui bisogna cercare continuamente un equilibrio. Tutto ciò si può tradurre in “cura”.

Amare non è mettere l’altro su un piedistallo o su un trono o in una nicchia e porsi e porre tutto ai suoi piedi. Questo è idolatrare l’altro e isolarsi dagli altri, incistarsi e inaridirsi. L’amore non è (non può e non deve essere) asfissia, altrimenti diventa agenesia. L’amore è acquisire un nuovo sguardo e non diventare ciechi, altrimenti si rischia di finire in un vicolo cieco. L’amore non può essere cieco, altrimenti si prende una cantonata e, quando si rinsavisce, non si riesce a trovare una via d’uscita nemmeno per una semplice crisi e si ricorre così sempre più spesso a un terzo (dal consulente di coppia all’avvocato).

Al filosofo Robert Pogue Harrison (nel libro “Giardini. Riflessioni sulla condizione umana”, 2008), piace rappresentare che i giardini sono luoghi che rallentano il tempo. Le crescite vi hanno ritmi lenti: quello della maturazione dei frutti, della crescita degli alberi. Il giardino, sostiene così, con la sua temporalità lunga, le promesse e i giuramenti di cui vivono gli amanti. Tempo e intemperie e altra simbologia del giardino, quello di cui devono tener conto la coppia sin dall’inizio e in itinere; tempo e impegno espressi nell’obbligo reciproco di collaborazione, introdotto nell’art. 143 cod. civ. dalla riforma di diritto di famiglia.

Amare qualcuno non significa ammantare sotto una fitta coltre i suoi limiti e lacune, ma significa filtrarli, decodificarli e mediarli affinché l’altra persona vi si possa specchiare e gli altri vi si possano avvicinare senza creare incistamenti e barricate. Etimologicamente “coppia” significa essere legati, congiunti, ma non incollati o abbarbicati, perché sono due entità della stessa specie messe insieme, non a caso nel codice civile il legislatore non parla di “coppia” ma di “coniugi” per richiamare lo stato giuridico. Quando necessario bisogna perciò distaccarsi per prendere respiro e

vivere la propria identità individuale che non si esaurisce in quella di coppia. Anche in tal modo si dà contenuto all’obbligo di assistenza morale materiale ai sensi dell’art. 143 comma 2 cod. civ.. La coppia non deve essere legata da un cappio ma attingere dalla stessa fonte dell’amore senza bere dalla stessa coppa dell’amore (come già scriveva Gibran in “Il Profeta”).

“L’amore […] si perfeziona col desiderio di invecchiare insieme per consumarsi in quell’Amore che non avrà mai fine” (cit.). Coppie che durano, che restano nel tempo e che presentano e rappresentano non l’amore perfetto, ma semplicemente l’amore.