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La narratività dei paesi lucani: da Salandra a San Fele

Paese di una volta…

Pazzo: “pazzo”, un appellativo che si attribuiva spesso a chi usciva dagli schemi, al diverso, allo “scemo” del paese.

Pezzo: pezzo di focaccia o di altra pietanza che si faceva assaggiare ai vicini di casa; o come il pezzo di cuore riservato sempre al paese da cui si era dovuti partire.

Pizzo: pizzi ricamati a mano o lavorati all’uncinetto per il corredo della sposa, quel corredo che ogni ragazza imparava a preparare sognando il suo futuro e la famiglia che avrebbe formato.

Pozzo: i contadini ne creavano di rudimentali quando individuavano una falda o fonte di acqua.

Puzzo: se ne sentivano di ogni tipo, da quella del fumo del camino a quella dello sterco degli animali domestici.

La vita rurale o paesana di una volta era cadenzata dai tempi della casa familiare, della campagna e della natura, dall’aratura e agnellatura alla stagnatura e alla zolfatura… Si viveva intensamente ogni tempo senza fare una corsa contro il tempo e senza dire di non avere tempo, ma impegnandosi e aiutandosi per superare ogni contrattempo pur non essendo tempi facili.

Trapassato prossimo o remoto: tratturi stretti e contorti, che richiamavano il percorso delle budella o dei cunicoli di formicai quasi a sottolineare il rapporto viscerale, intimo con la madre terra. Lungo quei tratturi si passava con l’asino o il mulo sulla cui groppa, al ritorno dalla campagna, si mettevano i sacchi pieni o le fascine e ci si aggrappava alla coda per farsi condurre. Trattori pericolosi e inquinanti, gommati o cingolati, su cui i bambini volevano salire o salivano senza alcun timore o che ammiravano quando erano nell’officina del meccanico dove alcuni maschietti andavano a imparare il mestiere. Traini usati da chi viveva nelle case coloniche del Metapontino per portare al mare famiglia e parenti ospitati. Trasporto di olio, salsiccia e altri prodotti fatti dalle mani amorevoli e laboriose dei genitori e degli altri anziani rimasti in paese e ‘mandati’ dal Sud al Nord. Trasportatore, uno dei mestieri più esercitati e anche ammirati, perché viaggiava in lungo e largo e poi raccontava nuovi mondi da vivere e nuovi modi di vivere. Traballanti impalcature su cui lavoravano fischiettanti muratori con i tipici cappelli fatti di carta, il più delle volte ricavata dai sacchetti di calce o altro materiale. Trabatello arrangiato o preso in prestito per imbiancare con la calce e con l’aiuto di figli o nipoti l’alto soffitto a volta. Trappole per topi in ogni casa per non far annidare i topi nella madia o per non farli arrivare alle forme di formaggio appese per farle stagionare. Tramezzini sconosciuti, perché i panini erano fatti con due fette di pane casereccio e in mezzo frittate o salumi fatti in casa o pecorino dal sapore deciso. ‘Trame’ fitte delle lenzuola grossolane nelle case popolane e ‘trame’ avvincenti dei mitici sceneggiati tratti da romanzi, da Sandokan a Michele Strogoff, che si seguivano in compagnia anche dei vicini di casa o parenti chesi riunivano apposta.

Trasmissioni televisive in bianco e nero e interrotte dall’intervallo Rai con musica d’arpa e paesaggi dei più bei posti italiani (altro che crociere e viaggi organizzati!). Trapezisti e trampolieri ammirati dai bambini negli spettacoli circensi sotto la tenda montata nella piazza centrale del paese e ai quali si andava accompagnati dai papà o dai nonni perché le mamme rimanevano in casa. Tracolla in cuoio - stracolma di lettere, cartoline, biglietti augurali, vaglia (di colore rosa), …- del postino (con il tipico cappello), tanto atteso e rispettato in paese come una figura istituzionale. Tradimenti frequenti ma tenuti nascosti o perdonati. Tramonto non come spettacolo da fotografare, come si fa adesso, ma come punto di riferimento della giornata per smontare dal lavoro nei campi e tornare a casa. Travasi di piante o del vino secondo le lunazioni, “studiate” dai vecchi saggi che con lo stesso metodo cercavano di prevedere il sesso dei nascituri. Travi di legno attaccate dai tarli i cui rumori notturni avvaloravano le leggende sui “monachicchi”. Trambusto in occasione della preparazione del pranzo nuziale, perché si faceva tutto in casa con l’aiuto di donne esperte e facendosi prestare gli utensili necessari. A Salandra, per queste grandi occasioni, c’erano Fastuecch’ (Fausta), la cuoca e Iangiulin (Angelina), che abitava nella Via nuova, “a via nov”, e faceva le paste, “i pezzi dolci”, della sposa, denominate in tempi moderni “sospiri”. Tramestio nelle botteghe, nei mulini. Tradizioni, dapprima abbandonate e ora rispolverate per trasformarle in sagre o altro… Un mondo di vite e di vitalità che non c’è più e che rischia di morire anche nella memoria, perché abbiamo perso l’abitudine di raccontare, richiamare, ricordare, ringraziare.

Salandra, sabato santo: processione della struggente statua dell’Addolorata (la cui espressione di autentico dolore hai ricercato in altre ma mai ritrovato) lungo salite e strettoie del rione Castello, stonature di canti di devozione popolare, suono della banda musicale del paese di lunga tradizione, seguito di paesani residenti e di quelli tornati per l’evento, soliti crocchi di coloro che si fermano apposta per parlare e guardare... Si arriva al Calvario, si risale al paese, ci si saluta, ci si congeda... Pur non facendo più ritorno al paese d’origine ci si immagina ciascuno al proprio posto secondo la propria consuetudine. E tra malinconia e nostalgia forse è meglio non tornare perché molto e molti non ci sono più e sono solo nelle pieghe del cuore, di quel cuore bambino in cui tutto resta più impresso.

Salandra, ultima domenica di maggio, festa della Madonna del Monte, al limitare del bosco. Festa di devozione popolare, nata da una leggenda di apparizione, come tante altre feste mariane. Manti verdeggianti lungo i pendii delle colline, ogni tanto un campo a maggese, qualche maggiolino in volo. Alcune donne che si chiamano Maria, varie manifestazioni di maternità. Ciò che colpisce di più sono le mani: mani che si salutano, mani che fanno il segno della croce, mani che toccano la statua della Madonna richiedendo una grazia, mani che sollevano la statua, mani che soccorrono un’anziana che è caduta inciampando, mani di figli che aiutano genitori con difficoltà di deambulazione, mani di genitori che tengono bimbetti sgambettanti... Lo zoom della macchina digitale si ferma sulla manina sinistra del Bambinello della statua che è infilata sotto il manto, dietro al collo, della Madre Celeste e che rende quella statua, venerata da generazioni di paesani, così plastica, così vera in quel gesto d’amore filiale. Finché ci sarà un intreccio di mani saremo umani e vi sarà un domani!

Santuari mariani in ogni angolo del territorio lucano - da quello sul colle di Picciano (nel territorio di Matera) a quello ai piedi del Monte Pierno (nel territorio di San Fele) -, sorti per leggende o racconti popolari, solitudine, silenzio, sospensione del tempo, sinuose nuvole, sibilo del vento attraverso le foglie degli alberi che ti sussurra nel tuo segreto qualcosa di insondabile, di imperscrutabile. E, immersi in quella sacralità, ci si rivolge alla casa della Madre con il pensiero per la propria madre, per ogni madre, vicina e lontana.

La giornalista Luisa Santinello scrive: “E con buona pace di oro e gioielli, non c’è niente di più prezioso del nostro passato. Perché solo guardandoci indietro possiamo davvero andare avanti”. Il passato (come il paese nativo o la famiglia d’origine) non si può cancellare, non si cancella. È quel cancello da cui siamo usciti, è quel cancello che, cigolante e arrugginito, rimane socchiuso per poter passare e attingere i ricordi o semplicemente fermarci, ritrovare la nostra dimensione, la nostra infanzia sulla sediolina impagliata con il cuscino fatto all’uncinetto nella casa della nonna, lì al solito posto. Il posto designato a noi e che ci aspetta per darci un po’ di tregua nella corsa del presente.

Quando te ne vai dal tuo paese di nascita vorresti che tutto rimanesse immutato e che tutti stessero lì nelle loro case, famiglie, occupazioni, abitudini... perché sono un punto di riferimento nella tua memoria visiva e nella memoria del cuore. E quando vieni a sapere della morte di qualcuno, seppure non imparentato né mai frequentato o salutato, comunque la notizia ti turba perché verrà a mancare la linfa vitale alla comunità paesana e da quella stella morta giungerà solo la luce (fin quando continuerà negli anni luce) nel buio del cielo comune in qualsiasi posto!

I paesi più o meno piccoli, non solo lucani, hanno qualcosa in comune: il cuore storico, il cuore delle persone che vi sono nate e cresciute.

Nascere e crescere in un paese è avere sempre un faro che conserva il suo fascino e mistero, anche se abbandonato (o proprio perché abbandonato).

Paese di nascita: oasi o miraggio nel cammino verso mete ignote e che si allontanano come gli orizzonti ogni volta che si cerca di avvicinarsi.