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Per un insegnamento di qualità

Nei documenti, anche internazionali, tra gli obiettivi o impegni per il presente e il futuro si parla continuamente di istruzione di qualità, ma cosa o chi determina veramente questa qualità? Il pedagogista Pier Cesare Rivoltella afferma: “Nella complessità in cui viviamo oggi servono insegnanti carismatici, esemplari, delle vere e proprie guide di vita. Se sei umanamente un fantoccio, i ragazzi ti scoprono in 5 minuti. Ogni insegnante deve avere alla base la passione per l’essere umano, la consapevolezza di fare il mestiere più bello e più importante del mondo”. Alla base della scuola ci sono gli insegnanti che è necessario che abbiano una loro base.

Il prof. Marco Pappalardo sostiene: “La nostra professione è fondata sulla parola e sull’esempio. [...] L’azione dei docenti è generatrice di futuro nel momento in cui, attraverso le discipline e la passione per lo studio, invita le nuove generazioni ad amare la vita in pienezza”. Gli insegnanti, coloro che lasciano un segno, sono “generatori di futuro”, per cui non dovrebbero procedere per metodi precostituiti (per quanto formulati da insigni esperti, Montessori, Steiner o altri), per etichettamenti (come, per esempio, il “pessimismo cosmico” di Leopardi), sigle, acronimi (BES, DSA, PTOF, RAV, ...) e affini. La cultura è un processo e non un prodotto.

“Insegnare è creare empatia, saper ascoltare, confrontarsi, dialogare, sorridere, perché solo un ambiente di apprendimento “caldo” ci consente di apprendere di più e meglio, come ci dicono le neuroscienze. Ripartiamo allora dalla relazione educativa basata sull’interazione faccia a faccia, ripartiamo dalla “presenza”, non solo fisica, ma anche emotiva e psichica” (cit.). Insegnare è “in”, entrare in relazione, creare relazioni nuove di giorno in giorno.

Il formatore Raffaele Iosa precisa: “Insegnare a vivere/conoscere attraverso stupore e meraviglia vuol dire creare una relazione empatica tra l’adultità e i nostri piccoli che mette al centro non un lineare e rigido percorso di travasamento del conoscere adulto, adattato a piccole teste, e neppure l’idea che si debba lasciare i piccoli solo in un caotico divertissement”. Insegnare e imparare divertendosi non significa trasformare la scuola in un “divertimentificio” come qualcuno intende fare o già si tende a fare, anche (o soprattutto) per compiacere ai genitori (basti vedere come si svolgono gli open day).

Lo psicologo statunitense Robert J. Sternberg spiega: “Le scuole insegnano ai bambini la conoscenza e a pensare in modo intelligente, ma raramente insegnano la saggezza; anzi, in molte scuole del globo si insegna l’odio per un gruppo o per l’altro. In ultima analisi, se la società desidera combattere l’odio, scuole e istituzioni devono insegnare agli studenti a pensare in modo saggio. Solo a quel punto essi comprenderanno che l’odio non è la soluzione legittima di alcun problema della vita; al contrario, l’odio aggrava i problemi, invece di risolverli” (in «Capire e combattere l’odio», in “Psicologia dell’odio. Conoscerlo per superarlo”, 2007). I bambini e i ragazzi devono mettersi alla prova per provare i loro limiti, conoscerli e riconoscerli negli altri. Accettando se stessi si accoglie l’altro, scoprendo se stessi ci si riscopre nell’altro, schiudendosi ci si apre all’altro. L’altro è specchio riflettente o deformante la realtà, ma comunque rappresentante la realtà. È questa la dimensione che deve essere recuperata e valorizzata nella famiglia, nella scuola e negli ambienti di vita dei bambini e dei ragazzi. Così si promuove lo sviluppo della personalità del fanciullo e si inculca nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 29 lettere a e b Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Nei confronti dei bambini bisognerebbe adottare la “pedagogia della tartaruga” sulla scia della “pedagogia della lumaca”, formulata dal compianto Gianfranco Zavalloni. “Come insegnanti siamo persuasi dalla logica della lepre che corre per vincere, ma non ama il percorso che compie facilmente? Oppure, almeno idealmente, conserviamo ancora in un angolo della consapevolezza la solidità della tartaruga: un passo alla volta, incurante di chi la beffeggia, protetta dal fermo guscio della dedizione per giungere al traguardo, perdendo il tempo necessario” (prof. Luciano Pace).

Il pedagogista Daniele Novara ammonisce: “Il buon insegnante non funge da “bancomat” di lezioni, “spiegoni” e contenuti nozionistici. Assume piuttosto un ruolo di regia volto a far lavorare gli alunni tra di loro, a costruire calde e intense interazioni sociali che consentano alla classe di funzionare come organismo vivo. Motiva e favorisce lo scambio sia per star bene assieme sia per lavorare bene assieme”. C’è differenza tra insegnante, buon insegnante e insegnante buono: la capacità e il coraggio di fare la differenza. Tra gli adulti di riferimento per bambini e ragazzi gli insegnanti hanno ancora più responsabilità perché dovrebbero essere preparati e qualificati e c’è anche l’atto di affidamento da parte dei genitori.

Daniele Novara si chiede: “Esiste un numero ideale di alunni per classe? Dipende. Certo è che, oltre al numero adeguato di studenti, fondamentale è occuparsi della formazione metodologica e didattica degli insegnanti”. Prima di mirare alle cosiddette “life skills” (competenze trasversali per la vita) degli alunni, gli insegnanti dovrebbero maturare ed essere padroni e consapevoli delle proprie competenze fondamentali, che non sono solo quelle culturali che si acquisiscono con la laurea o corsi di formazione (o pseudotali).

A scuola non sono adeguate né le “classi pollaio” né le “classi bonsai”. Il pedagogista Novara aggiunge: “Anche se va detto che risulta comunque difficile stabilire la misura giusta una volta per tutte. Ecco allora che la professionalità pedagogica diventa decisiva, a maggior ragione in contesti problematici”. Insegnare non è tanto far acquisire competenze trasversali quanto esercitare competenze trasversali, a cominciare dal cosiddetto sguardo pedagogico che, purtroppo, si è perso.

“La scuola dovrebbe essere – secondo la dirigente scolastica Tiziana Brindisi – un continuo programmare e riprogrammare: lo spazio, i tempi, i contenuti”. Un conto è programmare, altro è la programmazione didattica che è concertata solo tra o dagli insegnanti dal loro punto di vista e dimenticando spesso chi li aspetta in classe in una relazione di insegnamento-apprendimento. Altro che don Milani!

L’insegnamento non è fatto di cose, ma di esperienze, condivisione del sé, di incontri, di imprevisti. Si ricordi che l’art. 33 della Costituzione, dove si parla dell’insegnamento, è inserito sotto la rubrica “Rapporti etico-sociali”.

“Il lavoro dell’insegnante non è semplice, è come un mosaico che gli anni di esperienza, le metodologie, le tecniche e i sempre nuovi studi effettuati nell’ambito psico-pedagogico, vanno a comporre, ma affinché il lavoro risulti realmente fatto bene, non devono mai mancare l’entusiasmo, la voglia di imparare, la capacità di sorprendersi... e fare tutto questo insieme ai nostri alunni” (cit.). Insegnare è un continuo aggiornare e aggiornarsi, per esempio conoscere e provare l’efficacia del “controllo prossimale” (avvicinarsi ai bambini e ragazzi che “disturbano”) e dell’“effetto onda” (effetto di un “rimprovero” su tutta la classe) in caso di “comportamenti problematici” e sperimentare nuove metodologie. Insegnare non è inserire dati, ma insaporire, instaurare, insistere, insieme di relazioni, situazioni ed emozioni. Non è inserire pillole di sapere ma instillare emozioni per il sapere. E, soprattutto, autenticità.

“Proporre ai bambini libri che siano profumati di autenticità” (l’esperto Federico Batini in un webinar del 7 dicembre 2023). Gli insegnanti devono proporre letture non sulla scia di successi commerciali o perché sono dei “classici” (che non è detto che vadano sempre bene) o come riempitivo, ma quelle in cui loro credono per primi, di cui sono convinti, che suscitino passioni e discussioni, che abbiano pensato per quei bambini, che abbiano profumo di vita.

Inoltre, genitori e insegnanti devono tener conto dell’esistenza della “biologia della gentilezza” (e non solo della giornata mondiale della gentilezza), spiegata da Daniel Lumera, secondo cui ognuno ha il potere di controllare e influenzare il proprio stato di salute e di benessere, in altre parole il cambiamento in termini di consapevolezza nel proprio mondo interiore influisce positivamente anche sui parametri biologici e sulla qualità della vita personale, relazionale e professionale. La pratica della gentilezza può migliorare, nel caso dei genitori, il clima familiare, nel caso degli insegnanti la gestione della classe, le relazioni con colleghi e genitori e il rapporto tra gli alunni. “Gentile” deriva dal latino “gens”, “gente, stirpe, famiglia”, per cui è proprio dell’essere umano. La gentilezza richiama lo svolgimento della personalità e la solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

L’insegnante, più che spiegare argomenti, deve dispiegare argomenti di vita: insegnare non è intasare ma intarsiare.