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In-segnare non è as-segnare ma con-segnare

 

“Chi insegna deve stare bene attento a non predicare più di quanto può capire chi ascolta. Deve imporre a se stesso un limite e scendere al livello di chi ascolta, perché, se dice ai piccoli cose sublimi, i suoi discorsi saranno inutili e risulterà che è più preoccupato di ostentare se stesso che di aiutare chi ascolta”. Così scriveva il papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo d. C. sull’arte della comunicazione. Incisiva la locuzione “scendere al livello di chi ascolta” che, poi, è stata riformulata dal pediatra e pedagogista polacco Janusz Korczak: […] bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. […] essere obbligati ad innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti”. Almeno ogni tanto bisognerebbe imparare dai bambini, anziché pretendere di educare/insegnare soltanto, e questo lo si può fare nel dialogo, variamente definito “educativo”, “euristico”, “ermeneutico”. Stare con i bambini fa essere bambini che non significa né rimanere bambini né tornare bambini ma vedere le cose dal basso in tutta la loro magnificenza.

Il linguaggio dei bambini fa sorridere ma anche riflettere perché intriso di spontaneità e autenticità, è la vera comunicazione senza se e senza ma. I bambini, pur essendo balbuzienti della vita, sono un banco della scuola della vita, per cui hanno bisogno di sapienti educatori e non di saccenti insegnanti.

“Penso che nel libro sia solidificata, in maniera senza eguali, la ricchezza dell’umanità, la grandezza dell’immaginazione, la capacità di guardare a noi stessi e di raccontare agli altri” (il giornalista Marino Sinibaldi). Più che insegnare materie, ai bambini occorre consegnare la materia prima: la vita.

A proposito di materie, la materia che a scuola è spesso resa ostica e invisa è la matematica. Di ciò si è occupato il pedagogista Camillo Bortolato: “Dov’è la matematica ? Non a scuola, ma nel biberon. Quando il latte aumenta hai il senso della addizione, quando diminuisce ecco la sottrazione”. Etimologicamente “matematica” deriva da un verbo greco che significa “imparare”; essa è insita nella realtà, nella vita, per cui tocca agli insegnanti non presentarla come disciplina astratta e ostica. Se si mira a sviluppare la mente matematica (e non solo numerazione e operazioni) si rende la matematica più simpatica. La matematica è un linguaggio ed elemento culturale per cui i bambini ne hanno diritto, anche secondo la Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna 2011).

Come rendere meno noiosa la matematica? Considerarla parte della vita quotidiana e insegnarla anche mediante la scrittura creativa.

Il lavoro dell’insegnante non deve essere scelto né come un comune impiego né, meno che mai, per ripiego, deve essere scelto per coerenza e con consapevolezza e non perché non si siano realizzati i propri sogni “individualistici” (diventare un letterato o un libero professionista affermato) ma per realizzare i propri sogni “personali”, per esempio contribuire alla costruzione di una società migliore, quel “progresso materiale o spirituale della società” di cui all’art. 4 Cost.. I bambini e i ragazzi hanno diritto non a insegnanti buoni o buonisti ma a buoni insegnanti.

L’insegnante deve essere foriero di “vento emozionale”, deve essere vento emozionale, deve provare e suscitare emozioni. Insegnare è far eruttare la lava da ogni bambino (anche da quello che sembra spento) affinché possa trovare la sua strada. Tra le qualità necessarie per l’insegnante: ascolto, entusiasmo, istinto, osservazione, unità (del sapere).

All’insegnante è richiesta professionalità e non professionismo, anche nell’individuazione e nell’approccio con bambini con vari disturbi, sempre più diffusi.

Secondo gli esperti “È importante sia per i genitori che per gli insegnanti, essere capaci di riconoscere tempestivamente i disturbi specifici dell’apprendimento, che se non riconosciuti in tempo, si trasformano in vere e proprie difficoltà scolastiche che generano un’elevata frustrazione nel bambino, rischiando di demolire la sua autostima. Gli insegnanti rappresentano un elemento preziosissimo nel riconoscere e fronteggiare i DSA, dato che gli indicatori di rischio sono rilevabili soprattutto attraverso l’osservazione degli apprendimenti degli alunni, da parte degli stessi. Proprio per tale ragione, è assegnato un ruolo fondamentale alla capacità di osservazione degli insegnanti nel contesto scolastico, sia per il riconoscimento di un potenziale disturbo specifico dell’apprendimento e sia per individuare quelle caratteristiche cognitive su cui puntare per il raggiungimento del successo formativo” (cit.). Le conseguenze e le difficoltà correlate alla dislessia o ad altri D.S.A. o B.E.S. sono talvolta causate dalla “dislessia” degli adulti di riferimento e della scuola.

Nel processo di apprendimento l’insegnante non deve essere re ma regista, non autore ma fautore, non protagonista ma antagonista (come lo è il muscolo antagonista), non attore ma fattore.

L’insegnante innovatore: “Aderisce profondamente, con la mente e col cuore, ai principi della Costituzione repubblicana” (da “Cinque passi per una scuola inclusiva” di Roberta Passoni e Franco Lorenzoni, 2019). L’insegnante è un cittadino qualificato che aiuta i giovani cittadini a essere tali nell’esercizio quotidiano della cittadinanza.

Sempre sull’insegnante innovatore: “Parte sempre dal pensiero dei bambini e dei ragazzi, ascolta le loro idee, i loro pensieri, le loro emozioni, i contenuti delle loro osservazioni” (op. cit.). Una delle peculiarità dell’insegnante è la cura educativa.

Nelle scuole si applicano il cooperative learning e altre metodologie affini per migliorare l’apprendimento e l’ambiente relazionale. Proprio quello che, spesso, non si fa tra colleghi insegnanti, a ogni livello (dal collegio docenti alla contitolarità della classe) tra cui esiste, invece, un’insana competizione o clima ostile dimenticando i principi costituzionali, dalla libertà di pensiero alla scuola aperta a tutti (artt. 33 e 34 Cost.), su cui si realizzano progetti a scuola ma non se ne fa un progetto. Il corpo docente è una delle categorie professionali meno compatte, a differenza di altri Paesi. A scuola si parla di sana competitività e di competenze ma, a volte, sono tanto competitivi e poco competenti proprio certi insegnanti.

Lo psicologo educativo statunitense Jere Brophy affermava: “La gestione della classe è uno dei maggiori successi nella storia delle ricerche in campo educativo del ventesimo secolo” . L’insegnante non deve mirare né al proprio successo né al successo degli alunni in termini di prestazioni, risultati, obiettivi quanto, invece, a contribuire a una rete sana di relazioni, situazioni ed emozioni da vivere e condividere in classe. Quello spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia di cui si parla tra gli obiettivi dell’educazione nell’art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. E questo dipende anche dai rapporti tra gli insegnanti e dalla gestione delle proprie emozioni e dei propri vissuti.

“Gestire la classe significa agire in modo tale che ogni allievo possa trovare le giuste attenzioni educative e didattiche soddisfacendo i propri bisogni personali, promuovendo e mantenendo un proficuo ambiente di apprendimento in classe” (cit.). Gli insegnanti non sono titolari della classe ma gestori per cui gli aggettivi possessivi (la mia classe, i miei alunni, la mia aula, ...) non si dovrebbero usare.

Insegnare: incontrare l’altro, iniziare l’altro alla vita, inciampare con l’altro negli ostacoli della vita per ri-cercare nuove soluzioni (come si fa nel caso della classe capovolta, dei compiti di realtà e così di seguito), in…

Insegnare è segnare il presente, disegnare il futuro, consegnare strumenti, assegnare compiti di vita.

Insegnare è come la “parabola del seminatore” (Vangelo di Matteo 13, 1-23): seminare generosamente, instancabilmente e dappertutto, nella libertà di imparare dell’allievo.

E così la retribuzione più gratificante per gli insegnanti è ogni cambiamento che si nota in un alunno.