Abstract: L’articolo ricorda agli adulti la responsabilità di educare, scavandone il senso e le implicazioni anche alla luce della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e del pensiero di alcuni esperti.
“[…] a noi adulti non è chiesto di rincorrere gli aggiornamenti che la tecnologia impone al calendario, ma di essere punti di riferimento credibili e solidi, in un ambiente vitale che diventa sempre più fluido… offrirci come paletti di attracco… «Generazione digitale», per noi, si è trasformato in un «generare al digitale»” (l’esperto di tecnologia Marco Sanavio e la psicologa Luce Maria Busetto, “Generazioni digitali. Consigli per genitori e formatori”, 2017). Essere genitori e educare ha sempre comportato difficoltà anche perché vi è differenza intergenerazionale, perché richiede il continuo equilibrio tra se stessi e i figli, tra il mondo familiare e quello circostante. Nell’art. 27 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a proposito dei genitori, vi è la locuzione “nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie”: essere genitori comporta misurare le proprie possibilità e misurarsi con le proprie possibilità senza abdicare, senza strafare, senza nemmeno giustificarsi o giustificare dicendo “così fan tutti”. Essere genitori è innanzitutto esserci, perché i figli hanno bisogno di soggetti e non oggetti.
Educare: la fatica di preparare alla fatica del vivere. E preparare è prevenire. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco” (dalla poesia “Considero valore” di Erri De Luca). Considerare valore l’altro in cui potersi specchiare e da cui poter imparare: educare è allevare (“levar su”) e non abituare. Non si abitua (o si asseconda) un bambino in un certo modo convinti che, pian piano, si abituerà successivamente ad altro e all’altro: educare è, sin dalla nascita, indirizzarlo verso quella che è la vita e la vita è con gli altri, come emerge pure dalle locuzioni usate nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
Educare comporta pure il rimproverare (etimologicamente “riprovare”) e il richiamare (letteralmente “chiamare di nuovo, chiamare per far tornare indietro”), che non è incutere terrore ma timore, far conoscere il senso del limite e far riconoscere i limiti.
Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: “Bambini e ragazzi sono spinti a trasgredire, a superare i limiti, fa parte della loro natura di curiosi della vita, ma non c’è nulla di peggio del non
potere capire dove sono questi limiti e, quindi, dove inizia la trasgressione. E questo avviene quando si cresce in presenza di adulti ondivaghi, propensi a dire «sì» o «ni», pur di evitare il confronto con i «no». Troppi adulti sono impauriti dai loro figli e li trattano con un eccesso di aggressività, attirandosi il loro odio, o li blandiscono concedendo loro tutto, non sapendo che i ragazzi in fondo disprezzano chi non ha coraggio e si arrende o scappa troppo facilmente. Il buon esempio non fa miracoli, ma è il meglio che possiamo offrire ai nostri figli per aiutarli a non cedere al fascino della vita facile tutta centrata sul proprio tornaconto personale”. I genitori non si possono limitare ad essere “incubatori di vita”, ma devono necessariamente educare per essere “promotori di vita”. Dolcezza e fermezza dovrebbero caratterizzare ogni relazione educativa. “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio” (art. 30 comma 1 Costituzione).
Un principio cardine dell’educazione è il rispetto. Jean Piaget scriveva: “Si ha rispetto reciproco quando gli individui si attribuiscono reciprocamente un valore personale equivalente e non si limitano a valorizzare questa o quella azione particolare” (in “Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia”). Educare al rispetto e educare nel rispetto, come si ricava pure dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. E il rispetto richiama il concetto di sguardo.
Per educare e arrivare ai giovani bisogna innanzitutto rivolgere loro lo sguardo, il cosiddetto sguardo educativo, caratterizzato da intenzionalità e intensità (ricordando che lo sguardo si perde all’orizzonte, per cui non si riuscirà a seguire un giovane quando si allontanerà per prendere la sua strada, ma questo non significa perderlo ma solo perderlo di vista). Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sottolinea: “Chi guarda, impara che non conta la velocità o la frenesia dei fatti, ma la conversione alla lentezza dei movimenti, delle occhiate, del respiro, dei battiti cardiaci, del pensiero”.
“Spesso arriviamo a considerare degne di amore le persone, perché vediamo altre persone che le amano: i bambini arrivano ad amare il loro fratelli e sorelle, perché li vedono alla luce dell’amore dei genitori. Le guardie carcerarie guardano i prigionieri in modo differente dopo averli visti con coloro che li amano. Non si tratta di essere gentili, guardando il mondo con gli occhiali rosa. Si tratta di vedere le cose come sono, sinceramente” (cit.). Educare lo sguardo, allo sguardo, per guardare altro e oltre, per vedere l’altro e nell’altro, per scorgere il meglio, nuovi orizzonti, il futuro. “[…] allevarlo [il fanciullo] nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
La giornalista Giovanna Abbagnara richiama: “Imparare ad abitare il mondo digitale rientra in quella educazione ai nuovi media tanto necessaria per la crescita dei nostri figli. La comunicazione
oggi a differenza di ieri non è affatto diminuita per colpa del web. Anzi è cresciuta. La iper-connessione permette di continuare a parlare anche dopo il lavoro, la scuola, durante le attività pomeridiane, durante lo studio. Ma proprio per questa è rischiosa perché non essendoci spazi di silenzio e di riflessione personale finisce per essere povera di contenuti, poco approfondita, una comunicazione fatto per lo più di “mi piace” e “non mi piace”. Dovremmo insegnare ai nostri figli a pensare, a trasmettere valori, ragioni di senso. E questo è possibile solo se, come diceva madre Teresa di Calcutta: “l’esempio vale più di mille parole”. A patto di alzare lo sguardo dal display”. I genitori si devono occupare e preoccupare di salvaguardare la vista dei figli e di educare il loro sguardo.
Lo scrittore Alessandro D’Avenia, parlando di sé, afferma: “Ancora adesso, a 40 anni, mi sorprende il modo in cui i miei genitori mi dimostrano che per loro sono importante. Questo mi dà una forza che nessuno può togliermi”. I genitori devono far sentire “importanti” i figli. Etimologicamente “importante” significa qualcuno o qualcosa che “riesce a portarsi dentro”, riesce a penetrare, a toccare la sfera interiore, l’ambito intimo: i figli hanno bisogno di questo e non di essere considerati “unici”, “perfetti”, o tutti omologati “amore e tesoro”. Non bisogna dimenticare che ci sono anche i figli degli altri. In tal modo si dà il giusto e necessario ai figli affinché acquisiscano la forza di andare avanti e autonomamente. Dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti del’Infanzia si ricava che si deve educare il bambino al rispetto (dal verbo latino “respicere”, “guardare di nuovo, dietro”) di sé e dell’altro.
“Educare alla diversità oggi non è più solo una sfida, è diventato un atto di responsabilità. Fare esperienza dell’incontro con chi è diverso da noi è alimentare una cultura di pace” (il giornalista Claudio Imprudente). La diversità è un’università da cui imparare. “[…] preparare il fanciullo […] in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza” (dall’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Etimologicamente “tollerare” significa “portare, sollevare, sostenere”, ed è quello cui bisogna educare: portare i pesi della vita, portarli reciprocamente, perché si è tutti uguali, affinché si sia tutti uguali.
“[…] oggi il bambino continua a essere sottovalutato, non riconosciuto, poco stimato nei suoi valori e nelle sue potenzialità. Continua a essere considerato un «non ancora», un essere in fieri, in preparazione, che, grazie alla famiglia, all’educazione e alla scuola, diventerà un futuro cittadino. Il fatto di considerare il bambino come futuro cittadino è funzionale, perché permette agli adulti di porsi davanti a lui quali modelli per il suo futuro o come genitori o come insegnanti. Eppure questa è una proposta fortemente conservatrice, perché presenta come modello per il domani l’oggi che siamo noi, che in realtà è il nostro ieri” (lo storico gesuita Giancarlo Pani in “I diritti dell’infanzia”, giugno 2019). Educare non è modellare, ma modulare,
moderare, modificare. Educare è “plasmare” (con accezione positiva): “salare” (dare sale), “spalare” (perché è faticare), “salpare” (perché bisogna andare verso nuovi e condivisi orizzonti), “amare”. È questo il senso dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
Alla fine del film di formazione “L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza”, il bambino protagonista si ripete perplesso l’appellativo “esiliato” che gli è stato attribuito e continua: “Quando ti dicono che tuo padre arriverà più tardi e, poi, tarda tarda tarda significa che non verrà più!”. Bisogna fare molta attenzione alle spiegazioni che si danno e alle bugie che si dicono ai bambini pensando di evitare loro una sofferenza maggiore. Non si deve edulcorare la verità o il dolore ma educare alla verità e al dolore.
Il filosofo Roberto Mancini spiega: “Il dolore “portato” mi apre gli occhi. Mi fa vedere quello degli altri e mi accompagna nell’ascolto della loro voce. Rivelatività del dolore. […] Come risveglio di una sensibilità universale. Accesso a quella compassione per cui nel mio dolore e in quello di chi amo sento all’improvviso il dolore di tutti gli esseri”. Educare l’empatia, educare all’empatia: un bisogno emozionale, una necessità esistenziale.
Dalla parola “educare” si ricavano due parole significative “care” e “dare”. Per educare bisogna innanzitutto entrare in relazione e far cogliere quanto siano care le persone e, poi, dare un obiettivo cui volgere lo sguardo, dare l’esempio da osservare, dare regole condivise e coerenti da seguire. È quanto si ricava anche dal combinato disposto dell’art. 5 e dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
L’art. 5 della Convenzione è uno dei più emblematici, soprattutto per l’uso delle espressioni quali “comunità”, “orientamento” e “consigli” che riguardano proprio l’educazione. Educare non è facile ma farlo insieme, tra soggetti educativi e tra educatori e educandi, è un grande obiettivo e risultato.
Educare: adoperarsi, esplicare, iniziare, osservare l’unicità del bambino e l’universalità dei valori dell’umanità. “Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e la luce ti diano gioia, le quattro stagioni ti diano gioia, ma soprattutto, a piene mani, ti dia gioia l’uomo!” (da “Prima di tutto l’uomo” dello scrittore polacco Nazim Hikmet): educare all’uomo, educare all’umanità.
Educare (e, poi, insegnare) è tessere, costruire, spargere, sciogliere (verbi da considerare anche nel loro significato etimologico) con slancio, con sapienza, con allegria, con gioia, con trasporto, con amore. “Il lavoro è amore rivelato” (da “Il Profeta” di Kahlil Gibran) e così è il lavoro educativo ed in particolare quello genitoriale.
Educare (e insegnare): lasciare un’orma, dare forma.